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LA GLOSSOLALIA

 

LA GLOSSOLALIA

27 aprile 2000 Studi Biblici R.B.

INTRODUZIONE

 

In questi giorni di confusione, di smarrimento e di paura, immense folle che fino a ieri avevano manifestata la più cinica indifferenza verso Dio, stanno compiendo il grande “ritorno”. Ogni angolo del mondo è stato raggiunto dal soffio vivificante dello Spirito e in ogni sfera della società riaffiora l’anelito dell’anima che torna finalmente a Dio.

 

Questo immenso fenomeno spirituale non è un ritorno alla “religiosità tradizionale” o una riscoperta della chiesa, della liturgia, della pratica sacramentale, ma soltanto un profondo desiderio, anzi un imperioso bisogno di Dio. I credenti cioè non avvertono la necessità di trovare una nuova collocazione nella loro chiesa o di avere ancora una volta parte alla vita religiosa con tutte le sue pratiche e le sue cerimonie, ma soltanto di realizzare una vera, sensibile comunione con Dio: vogliono la realtà della Sua presenza nella loro vita, vogliono l’evidenza del soprannaturale nella loro esperienza.

 

 

Non possiamo meravigliarci se per effetto di questo anelito, queste immense folle di credenti hanno desiderato e cercato una vita carismatica o, come hanno detto altri, una vita pentecostale. Tutti hanno dimenticato la posizione di severa critica avuta per decenni nei confronti di quei movimenti di risveglio che nel nostro secolo hanno fatto rivivere nel proprio seno i carismi cristiani, cioè i doni e le manifestazioni dello Spirito, tutti hanno dimenticato per mettersi alla ricerca proprio di quei doni e per rivivere esattamente la medesima esperienza.

 

Noi che siamo stati oggetto di critica e non soltanto di critica possiamo rallegrarci del cambiamento e rendere lode a Dio il cui braccio è ancora e sempre teso per salvare, per operare, per manifestare tutta la Sua potenza. La nostra posizione particolare però ci fa anche sentire il dovere di esprimere quei consigli che fondati sulla Scrittura possano valersi dell’autorità e della luce derivanti dall’esperienza e possano quindi essere di valido aiuto nell’esercizio della vita carismatica.

 

Senza ombra di presunzione vogliamo rivolgerci a quanti riconoscono la necessità di approfondire, anche dottrinalmente, la propria esperienza pentecostale ed evitare che questa degeneri in un semplice fenomeno emozionale o si riduca ad una sterile sensazione.

 

L’argomento è di vastissime proporzioni, ma per ora ci limitiamo a restringerlo allo studio di un solo particolare della vita carismatica, quello del dono delle lingue (glossolalia), anche perché, a ragione o a torto e questo speriamo dedurlo dal nostro studio, questo fenomeno appare come componente centrale del risveglio pentecostale.

 

Nella speranza di far cosa grata a tutti i credenti e particolarmente di recare una fraterna parola chiarificatrice a quanti vengono denominati “carismatici”, “neo-pentecostali”o “pentecostali” con l’aggiunta delle più diverse definizioni denominazionali che spesso, quando non ci sconvolgono ci lasciano perplessi, eleviamo una preghiera perché il vento della Pentecoste possa spazzare via tutte quelle cose che come elementi di intromissione cercano di frenare il risveglio nella nostra generazione. Forse anche noi abbiamo bisogno di una parola chiarificatrice che ci aiuti a penetrare nell’essenza del problema per sciogliere quelle riserve o risolvere quelle perplessità che derivano dal moltiplicarsi degli elementi che rendono sempre più difficile una collocazione coerente delle componenti di tutti i movimenti citati; gli aneliti, le aspirazioni, le ricerche sono stati indirizzati verso un autentico risveglio spirituale? Le esperienze, i fenomeni sono tutti autentiche manifestazioni dello Spirito?

 

Mentre esprimiamo una parola di consiglio tentiamo di fare luce agli altri e a noi, sull’affascinante argomento.

 

LA GLOSSOLALIA NELLA BIBBIA

 

La “glossolalia” o “dono delle lingue” viene presentata dalla Bibbia come componente della vita carismatica della chiesa. Nel catalogo paolino contenuto nell’epistola ai Corinzi trova il proprio posto fra i doni che conferiscono capacità soprannaturale per parlare.

 

Tutti i doni spirituali conferiscono capacità soprannaturali; cioè si manifestano, attraverso i credenti non ignorando, ma superando la loro personalità; intelligenza, azione, parola quando scaturiscono dallo Spirito rendono il cristiano uno strumento che compie l’opera soprannaturale di Dio. La glossolalia può essere considerata fra i doni che in modo più evidente e diretto dimostrano la soprannaturalità della propria essenza perché essa permette al credente di esprimersi in “lingue” sconosciute senza l’intervento dell’intelligenza o della cultura.

 

Il fenomeno spirituale non può essere studiato e compreso a mezzo della scienza medica, psicologica o filologica perché appartiene alla sfera del divino dove la sovranità di Dio si esprime “al di fuori e al di sopra” alle leggi spirituali conosciute dall’uomo. I tentativi compiuti dalle varie discipline scientifiche per interpretare il fenomeno, si sono sempre dimostrati inefficaci.

 

La “glossolalia” dunque è quel dono spirituale che si “sostituisce” alla lingua del credente e gli consente di esprimersi in una “lingua” a lui sconosciuta; ovviamente la “sostituzione” coinvolge direttamente anche la mente perché la “parola espressa” rappresenta semplicemente e per tutti la manifestazione del pensiero. Il glossolalo invece parla, ma non comprende il proprio discorso, le proprie parole perché sono “proprie” soltanto entro i limiti dell’uso delle corde vocali e delle emissioni di fiato cioè entro i limiti della “partecipazione fisica”; naturalmente c’è di proprio la disponibilità spirituale. L’essere usato dallo Spirito implica la realizzazione di una esperienza che anche se non è razionale è ugualmente edificativa ed edificante; “parlare in lingue” per lo Spirito costituisce quindi, come vedremo più chiaramente in seguito, sempre una benedizione.

 

Che l’uomo possa improvvisamente parlare in una lingua a lui sconosciuta è ammesso generalmente da molti, ma il fenomeno viene interpretato nelle più diverse maniere, anche perché, dobbiamo ammetterlo, si verifica nelle più diverse sfere della vita spirituale e nelle più diverse forme; ma in questo breve e modesto scritto intendo affrontare “esclusivamente” il problema della glossolalia in relazione alla vita carismatica, alla luce della Scrittura e quindi ignorando gli studi che sono stati compiuti per affrontare l’argomento da punti di vista profani.

 

Già nel primo libro della Bibbia viene rapidamente descritto l’intervento di Dio fra gli uomini che avevano programmato la costruzione di una città e di una torre che doveva giungere fino al cielo. L’ambizioso progetto non poteva essere approvato da Dio che sentenziò:

 

“…scendiamo e confondiamo la loro favella; acciocché l’uno non intenda la favella dell’altro…(Gen. 11:7)” il Signore confuse quivi la favella di tutta la terra (Genesi 11:9).

 

L’esegesi del passo può farci concludere che in Babilonia ognuno comprendeva se stesso, ma nessuno comprendeva l’altro, ma comunque un popolo fino a quel giorno unito da un unico linguaggio diviene improvvisamente matrice delle più diverse lingue. Non possiamo certo identificare il “dono delle lingue” col miracolo di Babilonia o viceversa, ma possiamo però rilevare che quando il “divino” s’inserisce nell’umano, possono verificarsi quei fenomeni che molti si ostinano a voler comprendere e spiegare a livello della ragione.

 

La Bibbia, dopo il passo ricordato, non torna più a parlare in maniera esplicita del miracolo delle lingue; personalmente rifiuto l’interpretazione di alcuni che vogliono vedere in Deut. 28:49 un riferimento alla glossolalia. Questo passo può essere messo in parallelo con Isaia 33:19 – Salmo 81:5 e Ger. 5:15: sono evidenti riferimenti a quei popoli stranieri la cui lingua non può essere compresa in Israele appunto perché “straniera”, lingua però ben compresa dai popoli che la parlano.

 

Paolo nella prima epistola ai Corinzi cita un passo della “legge” che rappresenta una profezia relativa alla glossolalia. Sembra che per “legge” l’Apostolo voglia dire “Antico Testamento” perché l’unico passo che può essere considerato corrispondente a quello citato nella epistola è quello contenuto nel profeta Isaia: “Con labbra balbettanti e con lingue straniere parlerà a questo popolo” 28:11.

 

Ma anche questa profezia rimane avvolta da quello ermetismo che caratterizza gli annunci di realtà che possono avere la loro spiegazione precisa soltanto quando si compiono. Non possiamo escludere che la glossolalia possa anche avere avuto un posto ed una manifestazione nei circoli profetici, specialmente quando si determinavano fenomeni estatici collettivi (I Sam. 19:20-24) ma questo rimane nel campo dell’ipotesi e onestamente dobbiamo riconoscere che non si può compiere una ricostruzione storica basandola sopra congetture personali.

 

Vogliamo anzi annotare che neanche Gioele, definito il profeta dello Spirito Santo, che pure indugia nel parlare delle esperienze o dei doni spirituali, fa menzione della glossolalia. Queste constatazioni spiegano perché il soggetto, scarsamente documentato biblicamente, suscita tante perplessità in quegli studiosi della Scrittura, che privi di una esperienza carismatica diretta, cercano almeno l’ausilio di una copiosa letteratura chiarificatrice per comprendere e quindi spiegare il soggetto stesso.

 

L’Antico Testamento è avaro di citazioni utili ad approfondire il problema ed il Nuovo Testamento è stringato, ma ci fornisce però tutte le indicazioni utili alla comprensione, anche teologica, di un’esperienza spirituale che diviene completamente chiara quando il credente la realizza e può confrontarla con la Scrittura.

 

I quattro Vangeli espongono, completandosi vicendevolmente, la dottrina dello Spirito Santo; ci fanno conoscere che guida, rivela, parla per il credente; lo Spirito convince il mondo di peccato, consola il fedele, lo difende, può essere ricevuto in “misura” sempre più abbondante, è dato a tutti coloro che Lo desiderano e Lo chiedono (Lc. 11:13 – Giov. 7:37-39).

 

L’evangelista Giovanni ricorda le dichiarazioni più solenni del Maestro in riferimento allo Spirito:-”Chiunque ha sete…chi crede in me dal suo ventre coleranno fiumi…” “E’ utile che io me ne vada…Il Consolatore verrà a voi” “Esso vi guiderà…” (Giov. 7:37-39).

 

Nonostante quest’abbondanza di materiale di studio, la sola citazione relativa alla “glossolalia” la troviamo nell’ultimo capitolo del Vangelo di Marco e, cosa che può apparire sorprendente, non in riferimento al soggetto dello Spirito Santo, ma a quello della fede:-Questi segni accompagneranno coloro che avranno creduto…parleranno nuovi linguaggi (Marco 16:17).

 

Voglio subito far notare che la glossolalia è indicata come un “segno” d’identificazione del credente e non come “segno di riconoscimento del battesimo dello Spirito Santo”. I credenti presentano al mondo, assieme alla loro vita rigenerata e alle loro opere luminose, l’evidenza di una fede operante: esorcismo, taumaturgia, glossolalia che si uniranno ad una miracolosa invulnerabilità che li preserverà dal veleno dei serpenti o da quello delle bevande mortifere. Non posso chiudere questa parentesi senza aggiungere che questo verso del Vangelo di Marco illustra una condizione collettiva e non personale e le operazioni soprannaturali rappresentano quindi il patrimonio della chiesa, costituito dalla fusione dei doni e delle esperienze dei singoli credenti (I Cor. 12:11-30).

 

Questa precisazione non vuole ancora affrontare il problema della relazione fra battesimo nello Spirito e glossolalia, ma vuole essere sottolineatura del primo passo neotestamentario relativo al nostro soggetto.

 

Dobbiamo giungere a Fatti 2:4 per trovare il passo successivo e questo c’introduce pienamente nell’argomento perché ci descrive l’esperienza dei cristiani raccolti nell’Alto Solaio di Gerusalemme. Io ritengo che questo passo sia il più esauriente non soltanto nella descrizione del fenomeno all’epoca apostolica, ma anche nell’illustrarne tanto l’aspetto formale, quanto i contenuti sostanziali. Voglio ricordare che il titolo di questo scritto è “la glossolalia” e quindi non posso cedere all’invito di dilatarlo oltre i naturali confini per entrare nelle allettanti articolazioni della teologia dello Spirito Santo, ma non posso però sottrarmi da una breve analisi esegetica delle parole del passo citato e di quelle del contesto.

 

I cristiani di Gerusalemme “cominciarono a parlare lingue straniere secondo che lo Spirito dava loro a ragionare”, dopo che “furono riempiti”, ma è anche utile ricordare le sequenze rapidissime che si susseguirono nel giorno della Pentecoste: – “Dal cielo” “un suono” “come di vento impetuoso che soffia” che “riempì tutta la casa”. “Apparvero delle lingue spartite” “come di fuoco” “sopra ciascuno di loro” “tutti furono ripieni di Spirito Santo” (Fatti 2:2-3).

 

Se la Pentecoste viene accettata come modello, come prototipo del battesimo nello Spirito, deve essere anche accettata come punto di riferimento per lo studio della glossolalia. Il battesimo non è solo conoscere lo Spirito, realizzare una azione dello Spirito, ricevere un’effusione di Spirito, ma è “essere riempiti dello Spirito” (Fatti 2:4).

 

Il battesimo è realizzare la forza impetuosa del vento, la luce risplendente ed il calore del fuoco, la saturazione della personalità compiuta dalla potenza dello Spirito. Il battesimo è luce, potenza, vita in una misura che qualifica per il servizio, che rende pronti per la lotta (Fatti 1:8).

 

Soltanto in Fatti 2 abbiamo la precisa descrizione degli elementi che hanno caratterizzata la Pentecoste, ma non è ardito affermare che questa pagina della Scrittura ci è stata data per fornirci il modello, la pietra di paragone, per poter sempre individuare un autentico battesimo nello Spirito. La Pentecoste individuale o collettiva deve giungere alla glossolalia attraverso il battesimo e deve manifestare il battesimo nella successione di quelle precise realtà che possiamo esemplificare o figurare nel vento, nel fuoco…nella pienezza.

 

Giustamente ha fatto osservare il Tozer che la promessa espressa da Gesù in Atti 1:8 “Voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi”, non si riferisce a due realtà separate “Spirito” e “Potenza”, ma ad una sola realtà: “Spirito, che ha in Se stesso e quindi conferisce Potenza”. Non è possibile quindi realizzare il battesimo nello Spirito, senza realizzare anche potenza o, come possiamo esprimerci tipologicamente, senza presenza del vento, del fuoco, della pienezza.

 

Che l’esperienza del battesimo sia sempre caratterizzata da un’evidenza sensibile è confermato in modo inequivocabile dal libro dei Fatti, dalle parole di Pietro: “…ha sparso quello che voi VEDETE ed UDITE…” Fatti 2:33, agli altri versi:

 

“…VEDENDO che per l’imposizione delle mani degli apostoli, lo Spirito Santo era dato…” Fatti 8:18; “…li UDIVANO parlare lingue e magnificare Dio” Fatti 10:46;

 

“…lo Spirito Santo venne sopra loro e parlavano lingue strane e profetizzavano…” Fatti 19:6.

 

Che questa “evidenza” ci proponga il tema della glossolalia mi sembra fuori dubbio come fuori dubbio mi sembra che il tema della “glossolalia” non possa mai essere dissociato da quello del battesimo nello Spirito. Soltanto la pienezza del battesimo produce la immediata e quasi irrefrenabile manifestazione carismatica delle lingue.

 

Non voglio affermare, sia ben chiaro, che il credente non possa realizzare e quindi esercitare alcuni doni spirituali anche prima e senza il battesimo nello Spirito (Luca 10:27), ma voglio soltanto precisare che il “battesimo” è reso evidente “immediatamente” perché non può non essere accompagnato da una esuberante manifestazione carismatica. Anzi voglio far notare, perché sembra che molti l’abbiano dimenticato, che “quei discepoli che sembravano ebbri…” Atti 2:13 “ragionavano le cose grandi di Dio…” Atti 2:11

 

“magnificavano Dio…” Atti 10:46, voglio far notare, ripeto, che l’evidenza del battesimo non è data soltanto dalla glossolalia, ma dalla glossolalia unita, potenziata da un fiume di gloria che sgorga da un credente realmente inebriato dallo Spirito.

 

Il “battesimo” non è l’esperienza di un’ora e tanto meno una manifestazione fredda, priva di emotività e la glossolalia non è, non può essere, un fenomeno arido che lascia il credente quasi indifferente. Questo dono dello Spirito, proprio perché si esprime fuori dalla ragione e quindi della partecipazione intellettuale del credente, è il più qualificato per suscitare profonde emozioni tanto in colui che lo esperimenta e lo esercita, tanto in coloro che lo partecipano dall’esterno.

 

Ma forse per ora non è tanto importante delineare le caratteristiche formali e sostanziali del “dono delle lingue”, quanto insistere sulla perfetta biblicità del fenomeno. Annunciato velatamente nell’Antico Testamento, appare nel Vangelo e viene promesso come manifestazione carismatica e come segno distintivo della chiesa. La chiesa degli Atti, dalla Pentecoste in poi, realizza il dono divino e lo esercita come normale manifestazione della vita cristiana.

 

L’Apostolo Paolo nella prima epistola ai Corinzi, che è anche l’unica ad affrontare esaurientemente il soggetto del “culto comunitario”, non soltanto ci fa sapere che il “dono delle lingue” è presente ed attivo nella chiesa, ma ci fornisce anche tutte le delucidazioni necessarie a chiarire la “dottrina” della glossolalia, come particolare di quella più vasta della vita carismatica della chiesa.

 

Che il fenomeno non sia tramontato assieme alla chiesa apostolica è ampiamente provato dalla storia e specialmente dalla “storia dell’altra chiesa” come uno scrittore ha amato definire la catena ininterrotta di quei movimenti di risveglio che hanno regolarmente fatto rivivere nel proprio seno, assieme alle più evidenti manifestazioni della “grazia”, i doni spirituali congiunti o derivanti da questa.

 

Nella nostra generazione poi il problema è di scottante attualità perché riproposto prima dal movimento definito “pentecostale” e quindi ribadito con vivacità, ma forse anche con imprecisione, dai tanti movimenti generalmente censiti sotto il nome di “neo-pentecostali” o quello più ambizioso di “carismatici”. E proprio perché di attualità desidero esprimere il mio pensiero su questo appassionante problema; sono certo che specialmente per coloro che si affacciano ora sul vasto orizzonte delle esperienze pentecostali sarà gradito ascoltare un’opinione che possa aiutare a superare perplessità o incertezze.

 

Non credo che ci sia presunzione in questa dichiarazione che vuol dare soltanto risalto al valore di un’esperienza vissuta nel seno di un movimento che ha cercato e cerca di esaltare il valore della vita carismatica.

 

VALORE DELLA GLOSSOLALIA

 

L’Apostolo Paolo ringraziava Dio perché aveva ricevuto e possedeva il dono delle lingue (II Cor. 14:18), eppure molti studiosi moderni continuano ad affermare che egli giudicava la “glossolalia” un dono inferiore e ne scoraggiava l’esercizio. Sembra strano che il grande servo di Gesù Cristo possa con tanto calore ringraziare Dio per un dono che poi giudica privo di valore e che consiglia addirittura di accantonare.

 

L’equivoco e l’incoerenza non sono in Paolo, ma nei suoi interpreti che analizzano alcune parole contenute nella prima epistola ai Corinzi partendo da posizioni chiaramente preconcette. L’errore esegetico è determinato particolarmente da due elementi:

 

 

 

Dimenticare che Paolo risponde ai credenti di Corinto che hanno formulato precise domande poste in relazione ad alcune particolari situazioni locali.

 

Fermarsi sopra alcune parole dell’Apostolo e citarle a sostegno delle proprie tesi, scardinandole dal contesto fino al punto di interrompere una frase proprio là dove dovrebbe essere completata per chiarire il pensiero di Paolo.

 

 

 

 

 

L’Apostolo nel trattare il problema della vita carismatica è costretto a riferirsi ad una situazione locale particolarissima; appare chiaro che nella chiesa di Corinto l’esercizio dei doni dello Spirito veniva praticata fuori e in opposizione a quei principi di discernimento e di ordine (I Cor. 12:3; 14:23; 14:40) che sono essenziali per l’edificazione della chiesa; i credenti di quella comunità amavano la libera espansione delle loro emozioni e le più esuberanti e “spettacolari” forme di comunione e di culto e si abbandonavano di conseguenza alle più incontrollate manifestazioni carismatiche.

 

La glossolalia che per le sue caratteristiche intrinseche sfugge più facilmente ad un controllo e che in misura accentuata offre uno stimolo emozionale sembra esser stata preferita dai Corinzi ed esercitata in misura così ampia da togliere spazio non solo agli altri carismi dello Spirito, ma anche specificatamente al dono d’interpretazione che rappresenta l’elemento integrativo delle “lingue”. Le riunioni di culto nella comunità, perduto il controllo e l’ordine, avevano finito anche col perdere ogni carattere edificativo ed evangelistico e si erano svuotati di tutti gli elementi indispensabili per essere autentica offerta a Dio.

 

Paolo interviene per ricordare:

 

 

 

Che nella chiesa “tutti” i doni sono stati dati dallo Spirito e “tutti” devono essere esercitati nello Spirito (I Cor. 12:11)

 

Che i “doni” hanno uno scopo edificativi ed evangelistico e non devono essere esercitati per soddisfare aspirazioni umane o per provare sensazioni od emozioni (I Cor. 14:37).

 

Che l’esercizio dei doni deve essere disciplinato da un principio d’ordine che è “opportunità” “avvicendamento” “equilibrio” (I Cor. 14:31-33)

 

Che tutti i credenti devono sentirsi impegnati nella celebrazione del culto, ma tutti devono essere sottoposti alla guida dello Spirito (I Cor. 14:26).

 

 

 

 

 

Egli si dilunga in modo particolare a parlare del “dono delle lingue” appunto perché è quello al quale è stato consentito di invadere il campo ove doveva fiorire la vita carismatica; l’Apostolo non ordina di sopprimere, ma di ridurre alle misure volute dallo Spirito l’esercizio della glossolalia.

 

Le lingue non devono togliere lo spazio alla profezia, alla sapienza, alla scienza o agli altri doni spirituali, ma devono essere soltanto una parte di quella “vita” che deve essere manifestata dalla chiesa, corpo di Cristo (I Cor. 12:27). Come nel “corpo” ci sono molte membra, diverse l’una dall’altra, così nella chiesa devono esserci e manifestarsi funzioni che possano integrarsi vicendevolmente nella loro varietà; tutte contribuiscono all’edificazione se esercitate non in opposizione o in concorrenza, ma in armonia con i principi generali dell’ordine.

 

Per questi motivi, infatti, Paolo conclude: – “Così dunque, fratelli miei, appetite come a gara il profetizzare e non vietate il parlar in linguaggi…” (I Cor. 14:39).

 

Queste parole sembrano quasi dettate dalla preoccupazione di un possibile equivoco; quello che poteva nascere proprio dal fatto che l’Apostolo era stato costretto a soffermarsi a lungo sull’argomento della glossolalia per squalificare il metodo incomposto seguito dai credenti di Corinto. Non voglio “sopprimere” le lingue, sembra concludere Paolo, anzi non ostacolatene l’esercizio, ma vi esorto però a non farne l’elemento esclusivo della vostra vita carismatica e, soprattutto, vi raccomando di armonizzarle con l’interpretazione e alternarle con la profezia che avete respinta fuori dalle vostre riunioni.

 

Vengo al secondo punto ricordato che è poi quello maggiormente ricorrente come termine di controversia, cioè all’interpretazione del passo I Cor. 14:5. Le parole sottolineate dagli esegeti che cercano di dimostrare la inutilità della glossolalia sono: “…è maggiore chi profetizza che chi parla in linguaggi…”.

 

L’Apostolo, dicono, compie un confronto qualitativo ed enuncia una valutazione: c’è un dono che è più importante ed un altro che ovviamente è meno importante; quindi cerchiamo il primo e trascuriamo il secondo.

 

Si può subito osservare che prima di queste parole, Paolo ha scritto: “Or io voglio che tutti parliate linguaggi…”. Linguaggi come già detto che i credenti di Corinto già parlavano in misura esuberante ed incontrollata. Si può anche osservare che anche stabilito un principio di differenziazione qualitativa, questo principio non provoca l’eliminazione di ciò che è minore, a totale beneficio di ciò che è maggiore, ma non è su queste osservazioni che voglio richiamare l’attenzione del lettore, ma proprio sulle parole di Paolo: …maggiore è chi profetizza che chi parla linguaggi, SE NON CHE EGLI INTERPRETI, ACCIOCCHE’ LA CHIESA NE RICEVA EDIFICAZIONE.

 

L’Apostolo è di una chiarezza assoluta: -Se la “glossolalia” è esercitata disordinatamente, come appunto fra i credenti di Corinto, cioè collettivamente, senza essere seguita da interpretazione, perde quella sostanzialità edificativi che deve avere e diviene inferiore alla profezia ed anche ad ogni altro carisma, ma SE è seguita dall’interpretazione e riceve quindi la giusta collocazione nella vita spirituale della chiesa, riacquista interamente il proprio valore che è poi lo stesso valore di “ogni” dono dello Spirito.

 

E’ impossibile compiere una classificazione dei “doni”perché la loro validità è in relazione alle esigenze spirituali della chiesa e all’opera del ministero cristiano e se è vero che qualche volta l’esorcismo (Atti 16:18) deve essere il primo posto è altrettanto vero che questo deve essere dato in altra occasione alla taumaturgia (Atti 14:10) o alla profezia (Atti 21:11) o a qualsiasi altra qualificazione carismatica.

 

Nelle riunioni di culto, nel senso strettissimo del termine, devono esserci e devono alternarsi: salmo, linguaggi, rivelazione, interpretazione, profezia…(I Cor. 14:26-29) e tutte queste componenti devono essere considerate ugualmente valide e complementari per l’offerta di un culto a Dio e per l’edificazione della chiesa. Questo passo della Scrittura risponde ad un’altra osservazione negativa fatta da alcuni che, per squalificare la “glossolalia”, fanno notare che nel catalogo paolino questa, insieme all’interpretazione, è collocata all’ultimo posto.

 

La tesi è di una fragilità che rasenta la puerilità e viene subito demolita dal verso ora citato e che pone la glossolalia esattamente al centro delle manifestazioni carismatiche ricordate e trasferisce addirittura la profezia all’ultimo posto. D’altronde nell’elencare realtà di uguale valore cosa si può fare per non collocarne uno all’ultimo posto? Ma che la cronologia letteraria non abbia sempre il carattere di discriminazione è affermato da un altro passo della epistola ai Corinzi: – “Tre cose durano al presente: fede, speranza e carità…ma la maggiore di esse è la carità” (I Cor. 13:13). Sì! Proprio quella che si trova collocata all’ultimo posto.

 

No, Paolo non vuole svuotare del proprio valore il dono delle lingue perché per lui: “è dato dallo Spirito per ciò che è utile ed opportuno…” (I Cor. 12:7). Permette di parlare con Dio e ragionare misteri in Spirito (I Cor. 14:2). La glossolalia edifica il credente…(I Cor. 14:4), edifica la chiesa quando ha il suo naturale complemento (I Cor. 14:5).

 

La glossolalia è nel credente spirito di preghiera, fonte di gioia, impulso di esaltazione; è un “segno” che accompagna la chiesa nel ministerio evangelistico. L’Apostolo è felice di possedere, in misura copiosa questo carisma e vuole che la chiesa non soltanto realizzi il dono, ma lo eserciti regolarmente, e chiede soltanto che non sia trasformato in un mezzo per esaltare emozioni disordinate che finiscono sempre per soffocare la vita ordinata della comunità e quindi anche l’armonico ed equilibrato uso dei doni spirituali largiti da Dio.

 

In conclusione, l’Apostolo non vuole sbiadire ma mettere a fuoco per esaltare il dono delle lingue che egli possiede e che desidera per la chiesa a condizione, naturalmente, che questa lo sappia e voglia usare in sottomissione all’ordine dello Spirito.

 

LA GLOSSOLALIA PER IL CREDENTE E PER LA CHIESA

 

Il dono delle lingue, non ha soltanto una finalità edificativi per la chiesa, o uno scopo evangelistico per il non credente, ma anche una alta funzione nutritiva per il cristiano che lo possiede e che quindi può esercitarlo nell’ambito della propria vita devozionale privata. Per questo motivo Paolo rendeva grazie a Dio per il possesso del prezioso carisma e per questo stesso motivo credenti e ministri, nel corso della storia cristiana, fino ai giorni nostri, hanno reso testimonianza della gioia realizzata nell’esercizio della glossolalia.

 

“Parlare in altre lingue” mentre tutta la vita si eleva, a mezzo dell’adorazione e della preghiera, procura una dolcissima sensazione che non rimane “fine a se stessa”, ma arricchisce interiormente la personalità del credente. L’Apostolo Paolo espone didatticamente le ragioni profonde che stabiliscono il rapporto “glossolalia – benedizione” ed io desidero soffermarmi brevemente su queste ragioni perché l’esame, anche rapido, permette di riconoscere il valore di questo dono che molti cercano di squalificare.

 

Chi parla linguaggi non parla agli uomini, ma a Dio… I Cor. 14:2

 

Spero che nessuno voglia mettere in dubbio la preziosità del dialogo con Dio; parlare a Dio o parlare con Dio vuol dire sempre raggiungere un livello che ci distanzia dalle circostanze e dalle cose che vogliono assorbirci e ci permette anche di estraniarci alle nostre debolezze naturali; è il bramato incontro col Padre nelle sfere celesti che ci sono state schiuse in Cristo.

 

L’esperienza ricordata da Paolo non ha nulla in comune con la preghiera meccanica, fredda, distaccata che può essere esercitata sul binario di una liturgia stereotipata e che non produce nessun effetto spirituale nella personalità del credente. Il “glossolalo” che parla a Dio realizza sensibilmente la presenza di Dio ed è saturato, si può dire, tanto dall’atmosfera di gloria che lo circonda, quanto dalla potenza celeste che sgorga, attraverso le sue labbra, dal suo cuore.

 

“Nessuno l’intende” ed egli stesso non comprende il significato del suo discorso, quindi la sua mente rimane estranea ed infruttuosa, eppure egli proferisce misteri nello Spirito. Una cosa è posta in evidenza: il glossolalo esprime un “discorso” celeste e questo discorso è volto a Dio, quindi stabilisce un rapporto reale, concreto, intimo con il cielo e tutto questo non soltanto appare chiaro dalla dichiarazione di Paolo, ma anche dall’esperienza che il credente realizza nell’esercizio personale e privato del dono.

 

La mente rimane infruttuosa, ma la vita interiore viene ugualmente benedetta e da questa benedizione alla fine viene esaltata anche la mente. Ogni incontro con Dio eleva e perfeziona l’esperienza del credente e quindi anche l’incontro al quale non partecipa la ragione, si conclude con un processo edificativi che investe la intera personalità e, ovviamente, illumina anche la mente.

 

D’altronde, l’esperienza ci insegna che anche indipendentemente dalla glossolalia incontri con Di, nelle sfere celesti, ci conducono ad un colloquio che non è di parole; avvertiamo distintamente l’incapacità ad esprimere, con la nostra lingua, col nostro vocabolario, certi sentimenti spirituali che vorremmo tradurre in discorso ed allora preferiamo parlare con i “palpiti del cuore” e col “calore dell’anima” cioè col linguaggio del sentimento che non è linguaggio razionale o che non è sempre linguaggio razionale.

 

Parlare con la stessa lingua dello Spirito, anche quando questa è incomprensibile, vuol dire realizzare in un modo più profondo quel rapporto che permette al credente di aprirsi a Dio, elevarsi a Dio, abbandonarsi a Dio; non sono le parole, gli argomenti che edificano, ma il conseguimento di una comunione che è nello stesso tempo “comunicazione” e “mettere cose in comune” e quindi rende l’esperienza dolce e benefica.

 

Ma la glossolalia oltre ad essere discorso generico è anche

 

Orazione nello Spirito (I Cor. 14:14)

 

L’Apostolo Paolo afferma, nell’Epistola ai Romani che “noi non sappiamo pregare come si conviene…” (Rom. 8:26) e perciò lo Spirito “interviene” per noi con “sospiri ineffabili”. I sospiri diventano espressione, discorso e questi sospiri, vogliamo ricordare, procedono dallo Spirito; non possiamo quindi sorprenderci se l’intervento dello Spirito invece di concludersi semplicemente con i sospiri si manifesta attraverso la glossolalia.

 

Chi ha esperimentato il dono delle lingue, esercitato in funzione di orazione, sa bene e può rendere testimonianza che si sente veramente un “orante” nella profonda consapevolezza che anche la sua intercessione a Dio, per sé e per altri, è preghiera efficace (Giac.5:16).

 

Non deve sembrare strano che si possa pregare con parole che, in quanto sconosciute ed incomprensibili, escludono la nostra mente dall’intercessione; la preghiera è assolutamente esercizio di fede, manifestazione di amore e tutti sappiamo molto bene che queste virtù non nascono dalla mente ed anzi qualche volta esistono e si esprimono in opposizione ad ogni speculazione razionale. Noi non sappiamo sempre che cosa dobbiamo chiedere, ma sappiamo che dobbiamo chiedere cose che siano accettevoli a Dio e quindi qualche volta, nella comunione dello Spirito Santo, offriamo sull’altare fede ed amore e il Consolatore aggiunge le parole misteriose, come l’angelo aggiunge profumi alle orazioni di tutti i santi (Apocalisse 8:3).

 

Giovanni, nel passo ricordato, ci dice che il “fumo dei profumi” salì dalla mano dell’angelo nel cospetto di Dio. Anche qui non sono le parole, le frasi ben composte che ascendono al cielo, ma è il profumo stesso, che l’angelo ha sparso generosamente sopra le orazioni; sembra proprio che la Scrittura voglia ricordarci che Dio gradisce l’offerta provveduta da Lui e che deve trovare soltanto vasi preparati per riceverla e per renderla (I Cor. 29:14). La nostra partecipazione si deve realizzare nei limiti e nei modi voluti dallo Spirito.

 

E’ stato detto che l’orazione in lingue è qualche volta necessaria affinché preghiamo per esigenze a noi sconosciute; non possiamo pregare razionalmente quando Dio stesso ci vuole usare come strumenti d’intercessione a favore di credenti, ministri o missioni di cui forse ignoriamo l’esistenza. L’ipotesi è molto interessante, ma andrebbe sviluppata nella direzione di un approfondimento dell’essenza della preghiera e questo ci porterebbe troppo lontano dal soggetto immediato di questo scritto.

 

La stessa cosa si può dire a riguardo dell’ipotesi espressa da un noto revivalista inglese che affermava, forse troppo categoricamente, che lo Spirito ci fa pregare sovente in lingue per impedire al diavolo di comprendere e quindi di ostacolare le nostre richieste (Dan.10:12,13). Le “lingue” in questo caso diventerebbero una specie di “codice” per neutralizzare le azioni del nemico.

 

Non affronto i due argomenti perché, come detto, richiederebbero uno sviluppo ed una dilatazione dell’argomento fuori dello schema che mi sono proposto, ma non posso non osservare che l’uno e l’altro suscitano perplessità e quindi devono essere ricordati soltanto per incoraggiare quanti sono interessati a considerare il problema sotto tutti gli aspetti.

 

Fuori dalle “ipotesi” rimane la realtà, ampiamente esperimentata, di una vera, profonda comunione con Dio realizzata e sempre realizzabile in preghiera nell’esercizio del dono delle lingue. Quante volte il credente nella propria vita devozionale, inizia una conversazione con Dio o una preghiera a Dio con le proprie parole e poi penetrando sempre più profondamente nello spirito dell’orazione si accorge che le parole si sono esaurite o sono diventate inutili e vengono sostituite dai sospiri ineffabili; dai sospiri ineffabili alle “lingue” il passaggio è facile e frequente ed il credente, in tal caso, non si chiede qual è il significato delle parole che sgorgano dalle sue labbra perché “sente” che esse sono “sonorizzazione” dei suoi più intimi sentimenti, sono la preghiera del cuore.

 

La glossolalia, discorso, preghiera può essere ed è nell’esperienza spirituale:

 

Lode a Dio (II Cor. 14:15,16)

 

Credo che non sia difficile comprendere che per lodare Dio non siano sempre necessarie parole intelligibili; possiamo lodarLo con la musica, come la natura Lo loda con il canto degli uccelli o con lo stormir delle foglie. Se questo è vero, e nessuno può metterlo in dubbio, ne consegue che lodare Dio, per impulso dello Spirito Santo significa raggiungere un livello certamente più elevato di quello che si raggiunge accettando semplicemente dei suggerimenti liturgici o seguendo il binario della nostra ragione, o le note del pentagramma.

 

Sottolineare in senso negativo che il “glossolalo” non sa quali espressioni di lode usa per magnificare Dio, significa avere una concezione soltanto formale del culto spirituale che specialmente quando è individuale deve essere esercitato per esprimere quanto di più profondo, di più intimo si vuole offrire a Dio. Le parole, la ragione, come ripetutamente detto, non sono sempre i mezzi più idonei per raggiungere questo risultato che invece può essere pienamente conseguito quando un fenomeno carismatico, come quello della glossolalia, sembra portare in superficie e far traboccare i tesori più preziosi dell’anima per poterli “spandere” in offerta d’amore sull’altare della fede.

 

L’esperienza mi ha insegnato che quelle parole oscure, quelle frasi misteriose acquistano un significato non alla mente, ma al cuore; esse interpretano fedelmente quello stato interiore che si vuole esprimere, gli danno un suono, una melodia.

 

Fin qui mi sono limitato a scrivere relativamente all’azione edificativi della glossolalia nell’esperienza personale e privata del credente, ma non ho voluto, seguendo questo schema, svuotare questo dono prezioso del suo valore edificativi per la comunità. La “glossolalia” fa parte di pieno diritto e a parità di valore con gli altri del catalogo carismatico che elenca i nove doni dati dallo Spirito alla “chiesa” e se è vero che rappresenta una benedizione nella vita privata dell’individuo è altrettanto vero che può essere definita una ricchezza per la comunità.

 

L’Apostolo Paolo raccomanda di non ostacolare coloro che parlano in lingue (I Cor. 14:39); ricorda che nelle riunioni di culto devono esserci dottori, profeti e glossolali (I Cor. 14:26). Per quanto riguarda la disciplina cultuale esorta a “far parlare due o tre profeti…” e nella medesima maniera a far “parlare due o tre glossolali…” (I Cor. 14:27-29).

 

Questi riferimenti biblici sono estremamente chiari e fanno luce su una pagina della storia del cristianesimo, quella che tratta della vita carismatica nell’età apostolica. Non è vero, come affermano certi critici superficiali e frettolosi che il miracolo delle lingue si è compiuto eccezionalmente nel giorni della Pentecoste per capovolgere gli effetti di Babilonia (Gen. 11:7; Atti 2:8) anzi esso si è inserito nella vita spirituale della chiesa come componente integrale ed integrativa della vita carismatica (I Cor. 12:10).

 

Come ai giorni apostolici, il dono delle lingue può e deve essere disciplinatamente esercitato nella chiesa cristiana odierna. Per “disciplina” dobbiamo intendere quella sottomissione alla guida divina che si manifesta nell’ordine e nell’equilibrio di una sana e veramente edificativa vita carismatica.

 

Il primo principio di ordine nell’uso del dono delle lingue è di carattere quantitativo: “parlino due o tre al più”; il secondo di carattere cronologico: “uno dopo l’altro” ed il terzo di carattere integrativo: “…ed uno interpreti”.

 

Queste norme non hanno bisogno di molte spiegazioni, la glossolalia non deve monopolizzare la riunione di culto, ma deve essere soltanto una parte proporzionata di questo; specialmente per i credenti di Corinto che si erano quasi totalmente donati all’uso spettacolare e disordinato di questo carisma il richiamo all’ordine rappresentava l’esortazione a considerare e risolvere il problema entro le linee di una vita spirituale armonica e benefica.

 

Forse il medesimo richiamo è valido oggi per certi movimenti carismatici che fanno della glossolalia l’unico elemento d’espressione nelle loro riunioni di culto. E’ comprensibile come ai nostri giorni il dono delle lingue possa esercitare un’attrazione come la esercitava nella chiesa di Corinto, e rappresentare un mezzo per far esplodere le emozioni dei credenti; ma, ovviamente, come ieri Paolo così oggi, per la medesima parola, dobbiamo dichiarare esplicitamente che tutto ciò è fuori ed in conflitto con l’ordine stabilito da Dio.

 

Il messaggio in lingue deve essere chiaro nella dizione ed espresso in un’atmosfera di riverenza e di attenzione assoluta: “uno dopo l’altro” esclude che si possano dare due messaggi contemporaneamente od un messaggio che si confonda e si perda in mezzo al parlare di tutti. Il controllo delle proprie emozioni dovrebbe essere un principio generale e costante ed almeno dovrebbe avere una rigida attuazione nel momento che un carisma si manifesta in una riunione di culto; il “messaggio” non deve essere soffocato, disturbato o anche soltanto mescolato a voci e rumori che potrebbero turbare quell’equilibrio spirituale che è indispensabile per la realizzazione degli effetti della vita carismatica,che è e deve essere sempre vita di edificazione reciproca, quindi benedizione collettiva.

 

L’attività del “glossolalo” deve essere, sempre, e anche questo è un principio di ordine, sincronizzata con quella dell’”interprete” e quindi, se l’interprete manca, deve essere sospesa sia pure in attesa che sia suscitata dallo Spirito l’indispensabile attività complementare. Ovviamente il credente e la comunità possono chiedere a Dio la manifestazione del dono necessario, cioè quello dell’interpretazione (I Cor. 14:13).

 

Superati questi aspetti formali del soggetto, posso entrare nel merito della questione: la glossolalia come mezzo di edificazione della comunità (I Cor. 14:5). Il parallelo stabilito da Paolo: “…se non che egli interpreti acciocché la chiesa ne riceva edificazione…” autorizza una logica conclusione e cioè che la “glossolalia” integrata dall’interpretazione, esprime un messaggio che può essere assomigliato alla profezia e come la profezia può svolgere una funzione didattica.

 

Quando esprime un messaggio che s’indirizza agli in convertiti, sempre che sia seguito dall’interpretazione (I Cor. 14:23), si trasforma oltre che per il suo contenuto sostanziale anche per il suo aspetto formale, in un segno chiaro, evidente della soprannaturalità (I Cor. 14:22) del servizio cristiano; quando invece vuole essere ammaestramento alla chiesa, può “anche” essere, come sembra dirci Paolo, lode, ringraziamento, preghiera, e non soltanto queste.

 

Il messaggio in lingue “non è” un sermone come non lo è neanche la profezia; in una riunione di culto possono esserci due o tre “messaggi” con relativa interpretazione, due o tre profezie; se ognuno di questi messaggi fosse un sermone non basterebbe il tempo per predicarli tutti o non ci sarebbe spazio per l’esercizio di tutti gli altri doni e particolarmente per “rivelazione” “scienza” “dottrina” (I Cor. 14:6) oppure: “insegnamento” “esortazione” (Romani 12:7,8).

 

Il profeta deve esercitare il proprio carisma in proporzione alla propria fede (Romani 12:6) e la stessa cosa si può dire del glossolalo, ma in ambedue i casi questo limite non può, non deve giungere all’usurpazione del tempo che deve rimanere a disposizione del ministero del pastore, del dottore o di coloro che possono esortare o manifestare un altro qualsiasi dono spirituale. Quindi o che s’indirizzi agli in convertiti o che parli ai credenti il messaggio in lingue deve essere espresso entro i limiti di un discorso conciso, rapido, puntualizzato probabilmente sopra un solo pensiero. Mi rendo perfettamente conto che queste conclusioni esegetiche sono più il risultato di un metodo deduttivo che non di interpretazioni bibliche, ma voglio precisare che esse si valgono, entro certi limiti, delle esperienze personali realizzate nell’ambito del movimento pentecostale che può essere considerato, secondo la definizione di un emerito studioso di storia del cristianesimo, quel giovane movimento evangelico che ha saputo in questo secolo far rivivere nel proprio seno i carismi dello Spirito.

 

“Parlino due o tre ed uno dopo l’altro…” Torno sull’inciso di Paolo per far osservare un’altra volta la relazione ed il parallelo che egli stabilisce con la profezia che deve essere esercitata per edificare, esortare, consolare (I Cor. 14:3) e deve essere esercitata da tutti, affinché tutti imparino e tutti siano consolati (I Cor. 14:31). La glossolalia “da sola” deve cedere il passo alla profezia, ma quando è esercitata ordinatamente assieme all’interprete, spoglia ogni aspetto di subordinazione e raggiunge, almeno così mi sembra la stessa funzione e gli stessi risultati della profezia; anzi, tenendo presente che sempre esiste ed esisterà nella chiesa una carica di emotività religiosa, la glossolalia per il suo particolare aspetto può talvolta suscitare reazioni positive ed ottenere adesioni ancora più profonde di quelle raccolte dalla profezia.

 

Ma perché non parlare direttamente in un linguaggio intelligibile? A questa domanda posta da critici irriducibili si può rispondere semplicemente che lo “Spirito” opera come vuole e non possiamo mai discutere o contestare la sovranità di Dio i cui metodi riflettono sempre la Sua assoluta sapienza, il Suo perfetto equilibrio, anche quando ci lasciano perplessi.

 

Invece di tentare una risposta ad una domanda che appare se non sacrilega almeno irriverente, voglio fermarmi a considerare alcune manifestazioni della “glossolalia” nel contesto delle normali riunioni di culto; manifestazioni che suscitano spesso una serie di interrogativi quali non pretendo dare una risposta definitiva, ma che desidero prendere in considerazione almeno per iniziare quello che in seguito potrà essere un dialogo.

 

Gli scarni insegnamenti della Scrittura non affrontano in modo diretto ed esauriente il fenomeno carismatico nella molteplicità delle sue manifestazioni, ma l’esperienza pone tutti, ma specialmente coloro che hanno possibilità di spaziare oltre i confini di una singola comunità, davanti a caratteristiche così varie e così diverse da non poter fare a meno di cercare spiegazioni che chiariscano e concilino la mutevole manifestazione del dono delle lingue.

 

Possiamo forse attribuire la laconicità della Parola di Dio proprio al proposito di suggerire l’interpretazione della vita carismatica della chiesa non entro schemi ristretti e repressivi, ma entro i confini spaziosi della libertà dello Spirito.

 

Ma veniamo ai casi pratici:

 

 

 

Frequentemente il messaggio in lingue è un discorso caldo, sonoro, di pochi minuti che viene seguito a breve distanza di tempo dall’interpretazione espressa da un credente diverso, qualche volta invece l’interpretazione del messaggio viene data dallo stesso glossolalo, quasi a continuazione del discorso in lingue.

 

Non è raro il caso, inoltre, che ad un messaggio di una determinata lunghezza faccia riscontro il discorso interpretativo di lunghezza notevolmente più breve o notevolmente più lunga.

 

Qualche volta fra il glossolalo e l’interprete si stabilisce una specie di dialogo ed il messaggio in lingue viene espresso ed interpretato frase per frase.

 

Ma quello che suscita maggiormente perplessità nelle comunità è l’assenza dell’interprete, quando invece è presente ed attivo il glossolalo; si ode un discorso in lingue, nitido, conclusivo, ma l’attesa non viene interrotta da quella che dovrebbe essere la voce dell’interprete.

 

 

 

 

 

Potrei anche continuare perché la casistica si presenta particolarmente ricca, ma fermiamoci a considerare le manifestazioni ricordate e che sono, d’altronde, le più frequenti nelle chiese pentecostali dei nostri giorni. Non c’è molto da dire sul primo caso perché si presenta sotto il profilo del più classico ed ortodosso esercizio del carisma: il glossolalo esprime il proprio messaggio ed un altro lo segue dandone l’interpretazione in lingua intelligibile; anche l’interpretazione resa dallo stesso glossolalo può essere considerata perfettamente biblica alla luce delle parole di Paolo in I Cor.14:5.

 

Sul secondo caso, invece, si possono dire molte cose che si muovono entro i limiti dell’esperienza, delle congetture e dei confronti biblici. Prima di tutto si può ricordare che le capacità espressive di una lingua non possono mai essere misurate col metro di altra lingua; “anche” fra lingue umane quello che può essere detto con poche altre parole o addirittura con una concisa “espressione idiomatica” in una lingua, ha bisogno, probabilmente, di un lungo discorso in altra lingua, Daniele 5:25-28 è un esempio biblico di questa affermazione.

 

Inoltre bisogna ricordare che l’interprete non è un”traduttore” ma semplicemente uno strumento che deve esprimere ed applicare un messaggio la cui sostanza può essere concentrata in un discorso di lunghezza variabile. Non si può escludere a priori che possa anche esserci il caso di assoluta mancanza di relazione fra le due cose perché una od ambedue, fuori della guida dello Spirito.

 

Il discernimento spirituale, la diligenza di colui che presiede dovrebbe in questi casi riportare l’ordine nell’esercizio dei doni.

 

Ma un emerito studioso della materia, il defunto Donald Geè, ha prospettato anche un’altra ipotesi e cioè che il discorso intelligibile di lunghezza notevolmente diversa dal messaggio in lingue possa essere non l’interpretazione di questo, ma l’esercizio del dono della profezia e in questo caso la glossolalia avrebbe avuto soltanto la funzione di “eccitare” lo spirito del profeta. Questa ipotesi, come qualsiasi ipotesi, potrebbe essere posta in discussione se non altro per il fatto che sembra conferire alla glossolalia una funzione che la qualificherebbe e quindi ne autorizzerebbe l’esercizio anche in assenza dell’interprete.

 

Ma come si può sapere in anticipo, si chiedono molti, se nelle comunità è sempre presente un interprete? Questa domanda apre la prospettiva ad un aspetto particolare del problema, cioè quello del possesso e dell’esercizio dei doni.

 

Se accettiamo il principio che i doni dello Spirito vengono ricevuti e quindi possono essere esercitati in forma “permanente”, la soluzione del problema è estremamente semplice: la comunità “può conoscere” quali doni e a quali credenti sono stati largiti dallo Spirito e quindi può vivere la propria vita carismatica in rapporto alle risorse spirituali esistenti nella chiesa e in un certo senso inventariate dalla chiesa.

 

Non mancano versi dell’epistola ai Corinzi che sembrano sostenere questa tesi e credo che sia onesto ricordarli:

 

…”Quando voi vi radunate, avendo ciascuno di voi, chi salmo, chi dottrina, chi linguaggio, chi rivelazione, chi interpretazione…” (I Cor.14:26).

 

“Tutti hanno il dono delle potenti operazioni? Tutti i doni delle guarigioni? Parlano tutti diverse lingue? Sono tutti interpreti?…” (I Cor.12:30).

 

Di fronte a questi passi però ce ne sono altri che sembrano affermare la stessa tesi, generalmente accettata nel seno delle comunità pentecostali, dell’estemporaneità nell’esercizio del “dono”. Secondo questa tesi, “tutti” nelle riunioni comunitarie possono esperimentare “tutti” i doni e cioè essere di volta in volta glossolalo, profeta, interprete…In “potenza” ogni credente battezzato nello Spirito possiede tutti i doni, ma nelle riunioni di culto “ognuno” è sospinto dallo Spirito in armonia con un programma che può variare di volta in volta nella disposizione delle manifestazioni e nelle persone guidate ad esercitare i doni. Questa tesi naturalmente compie una distinzione fra il “ministerio” che è sempre qualificazione a carattere permanente: apostolo, profeta, evangelista, pastore, dottore, e il “dono” che è invece qualificazione a carattere transitorio, per quanto riguarda l’attività carismatica della comunità.

 

Alcuni passi vengono citati per confortare la tesi di un processo di avvicendamento nell’esercizio dei doni sono:

 

 

 

Appetite come a gara i doni migliori (I Cor.12:31)

 

…appetite come a gara i doni spirituali, ma principalmente che voi profetizziate (I Cor.14:1)

 

Così ancor voi poiché siete desiderosi di doni spirituali cercate di abbondare, per l’edificazione della chiesa (I Cor.14:2)

 

Se dunque, quando tutta la chiesa è radunata “tutti” parlano linguaggi… (I Cor.14:23)

 

Poiché “tutti”, ad uno ad uno, possiate profetizzare… (I Cor.14:31).

 

 

 

 

 

Come già detto, questi ed altri passi sembrano affermare l’estemporaneità del culto cristiano e non soltanto in relazione ai fenomeni spirituali, ma anche alle persone. I credenti dovrebbero unirsi senza uno schema liturgico prestabilito, ma con una completa disponibilità tanto collettiva, quanto personale all’azione dello Spirito e quindi dovrebbero essere pronti per essere mossi ed usati da Dio nel modo voluto da Lui.

 

In questo caso il possesso e l’uso del dono è strettamente collegato alla riunione e colui che in una assemblea esprime un messaggio in lingue, può in altra assemblea essere interprete o profeta; tutti possono essere di volta in volta strumenti con caratteristiche diverse.

 

Spero di essere abbastanza chiaro da far comprendere ai miei lettori che non cerco di dogmatizzare, ma di delineare onestamente il problema nei suoi due aspetti principali lasciando ad ognuno di approfondire e tentare la via della soluzione del problema stesso. Tornando al soggetto lasciato in sospeso, possiamo chiederci: – Se i doni si manifestano in maniera varia in ogni singola riunione e se ogni credente può, usato dallo Spirito, esercitare di volta in volta doni diversi, come si può sapere se si manifesterà il dono dell’interpretazione e come farà quindi il glossolalo a regolarsi se esercitare o non esercitare il proprio dono?

 

La risposta che viene data più comunemente è questa: se dopo un messaggio in lingue non segue l’interpretazione, non devono essere dati altri messaggi per la manifesta assenza dell’interprete. Ma anche questa dichiarazione ha i suoi lati discutibili perché sembra ignorare le ipotesi di un “messaggio” che non è stato seguito da interpretazione semplicemente perché non procedeva dallo Spirito, oppure di una “interpretazione” che non è stata data per carenza di fede e quindi di franchezza da parte dell’interprete.

 

Ma forse una risposta più precisa e più convincente ci viene da un’altra ipotesi che è questa: . E’ vero che i “doni” dello Spirito possono essere esercitati da tutti, è vero quindi che nella chiesa può esistere varietà e avvicendamento, ma è almeno probabile che questa varietà possa verificarsi non in relazione ad ogni singola riunione, ma in rapporto a “periodi” più o meno lunghi di tempo. Il glossolalo potrà anche essere interprete, profeta o taumaturgo, ma conserverà almeno per un periodo una sua precisa fisionomia carismatica e quindi presentarsi alla chiesa con una chiara personalità che consenta anticipatamente di conoscere quali sono le risorse spirituali della comunità, ma in tal caso la varietà si armonizza con la libertà e la volontà dello Spirito, ma non è strettamente collegata con ogni singola riunione, e se questa si svolge, ogni volta, senza uno schema liturgico anticipatamente programmato, ha però una precisa risorsa di doni già conosciuti (I Cor.14:26).

 

Se questa ipotesi è ugualmente discutibile è però in misura notevole confermata dall’esperienza comunitaria; credo che tutti abbiamo notato che “dono delle lingue” o “profezia” o altri doni vengono generalmente esercitati da quei fedeli che ripetutamente manifestano lo specifico carisma, almeno fino a tanto che non si compie un processo di avvicendamento col sorgere di altri profeti, glossolali, interpreti.

 

Ho già risposto al quesito: – Può il glossolalo dare personalmente l’interpretazione? Ma ripeto: – L’esercizio carismatico in perfetto equilibrio prevede un interprete diverso dal glossolalo (I Cor.14:27), ma la Scrittura non esclude il possesso e l’uso contemporaneo dei due doni (I Cor.14:5,13); quando esiste questa condizione, il messaggio in lingue può essere espresso in piena libertà da chi sente di essere anche interprete.

 

L’altro quesito: – Può il messaggio essere espresso in periodi intercalati dall’interpretazione e quindi sembrare più in dialogo che un discorso?

 

Devo confessare che non riesco a trovare nella Scrittura una risposta esplicita a questa domanda che d’altronde si riferisce a casi infrequenti e che rappresentano perciò rarissime eccezioni. Oso dire che questa eventualità può essere accettata come viene accettata “ogni” eccezione e naturalmente va vagliata come si deve “vagliare” ogni manifestazione spirituale (I Cor.14:29).

 

Ritorna quindi l’argomento relativo all’esigenza del “discernimento” e della più illuminata diligenza della presidenza (Rom.12:8), dell’ortodossia di certi principi fondamentali (I Cor.12:3) e soprattutto di una completa sensibilità di spirito dell’intera comunità. Il “messaggio” autentico al pari della corrispondente interpretazione, deve essere riconosciuto dall’assemblea non soltanto per la biblicità o per l’ortodossia del discorso, ma anche per l’inequivocabile essenza spirituale.

 

O esortazione, o riprensione, o incoraggiamento, o appello, il messaggio deve avere in se stesso una potenza capace di raggiungere i cuori e riscaldarli o metterli in crisi. In parole più semplici e più pratiche, l’esercizio della glossolalia deve avere sempre un risultato edificativo e non semplicemente un fine emozionale che è quanto di più epidermico possa essere realizzato nella chiesa.

 

La conclusione ormai è stata anticipata: il dono delle lingue è prezioso sia nella vita privata del credente, sia nella vita comunitaria dove può essere utile tanto per l’edificazione del popolo di Dio, quanto per l’evangelizzazione degli in convertiti.

 

E’ superfluo ripetere che questo prezioso dono non deve essere esercitato in maniera incontrollata per soddisfare esigenze emotive, ma ordinatamente, nella guida dello Spirito che nella radunanza lo vuole collegato con il dono dell’interpretazione e nel contesto di tutti gli altri doni spirituali, perché fare della “glossolalia” l’esclusiva manifestazione della vita carismatica della chiesa significa non soltanto fare del denominazionalismo puerile, ma anche privarsi delle ricchissime risorse dello Spirito Santo.

 

AUTENTICAZIONE DELLA GLOSSOLALIA

 

Personalmente ho realizzata l’esperienza del battesimo nello Spirito con l’evidenza carismatica della glossolalia in maniera veramente esuberante e posso aggiungere che tutti, indistintamente, coloro che ho veduto immersi nel battesimo pentecostale hanno parlato in “lingue straniere”, però voglio precisare che non tutti coloro che ho udito parlare lingue incomprensibili erano veramente battezzati nello Spirito. Quindi il battesimo manifesta le “lingue”, ma non sempre le “lingue” derivano dal battesimo ed anzi devo aggiungere, con profondo rammarico, che negli anni più recenti si è accentuata la tendenza a ricercare le “lingue” piuttosto che il battesimo nello Spirito.

 

Credo di aver detto abbastanza chiaramente che la glossolalia deve essere realmente un fenomeno dello Spirito Santo per essere definito un carisma pentecostale e quindi bisogna essere assolutamente sicuri che non ci siano contraffazioni, imitazioni accettate troppo frettolosamente e superficialmente come un “segno” del battesimo celeste.

 

Recentemente mi è stato riferito che un filologo canadese ha eseguito uno studio analitico sui fenomeni glossolologi delle comunità pentecostali ed ha concluso che quelle che si parlano non sono vere “lingue” perché assolutamente prive di una sintassi. Ovviamente si può rifiutare a priori il giudizio di questo grammatico e concludere che egli non è qualificato ad analizzare lingue soprannaturali che in quanto tali possono anche avere una sintassi parallela a quella delle lingue umane, ma non si può neanche escludere che l’emerito studioso sia rimasto disorientato dalle tante manifestazioni di “cacofonia” che sembrano abbondare in questi giorni in ogni circolo ove si vive o si dice di vivere una vita carismatica.

 

Se invece un discorso fluido, scorrevole, cariato, si ode soltanto dizione meccanica di suoni ricorrenti, spesso duri, esplosivi; suoni che frequentemente sono identici e ripetuti da tutti i sedicenti glossolali, è naturale che uno studioso, e non soltanto lui, rimanga perplesso di fronte all’incomprensibile e disordinato fenomeno.

 

Eppure oggi non soltanto nel mondo definito neo-pentecostale o carismatico, ma anche in quello del pentecostalismo classico, si tende a fare sempre meno distinzione fra l’autentico “dono delle lingue” e un qualsiasi fenomeno fonetico. Non dobbiamo quindi meravigliarci se s’incontrano folle di “carismatici” che si autodefiniscono tali e che testimoniano di una pretesa esperienza pentecostale, ma che continuano a professare dottrine in conflitto con la Bibbia e ad esercitare pratiche esplicitamente condannate dal cristianesimo, e questo è vero particolarmente fra i così detti neo-pentecostali.

 

Non dobbiamo neanche meravigliarci se esiste una generazione pentecostale, molto esuberante sotto il profilo liturgico, che ignora completamente la “potenza” del battesimo nello Spirito e non realizza il frutto che dovrebbe caratterizzare la vita cristiana di quanti hanno esperimentato il fuoco, il vento, la saturazione dell’Alto Solaio. Forse oggi molti ministri e molte comunità sentono troppo interesse per le “statistiche”, troppo desiderio di raggiungere e reclamizzare strepitosi risultati e quindi non si preoccupano eccessivamente di effettuare quel controllo spirituale che deve sempre e per ogni cosa evitare l’ingresso di elementi estranei nella vita del credente e della comunità.

 

Quest’appunto s’indirizza particolarmente a coloro che avanzano pretese dommatiche nella definizione di certi aspetti formali della vita carismatica, ma perdono tropo spesso di vista i contenuti sostanziali della vita cristiana in generale e dell’esperienza pentecostale in particolare.

 

Non si può e non si deve ignorare che il fenomeno della “glossolalia” può essere suscitato anche da “spiriti” infernali, e quello più frequente della “cacofonia”, può derivare facilmente da suggestione, emozione incontrollata, influenza psicologica, quando addirittura non è risultato di direttive impartite da ministri poco scrupolosi o poco illuminati.

 

Principio di quest’ultima affermazione per precisare che più volte mi è stato riferito che ci sono non pochi “revivalisti” che chiedono ai credenti raccolti in preghiera di dimenticare la propria lingua e ripetere, assieme a loro, le frasi misteriose che sono pronti ad insegnare per dare l’inizio al discorso in lingue e quindi per “produrre il segno” che possa testimoniare dell’esperienza del battesimo pentecostale. Naturalmente non soltanto io, ma ogni onesto credente rifiuta questo metodo che, oltre ad essere in aperto conflitto con la Scrittura, sembra offendere ogni principio di serietà e di dignità cristiana.

 

Se il ministerio esercitato da coloro che ho ricordato rappresenta un’ombra nel movimento pentecostale, nulla di meglio emerge dall’attività di quanti cercano di sfruttare elementi psicologici e mi riferisco a quei predicatori che riescono a “riscaldare l’ambiente” e a suscitare le emozioni più violente senza entrare nelle vere sfere della fede. Non poche volte durante le così dette “campagne di risveglio” o campeggi cristiani si registrano e quindi “reclamizzano” “battesimi pentecostali” che purtroppo però non apportano quasi mai un beneficio alle comunità o ai singoli credenti; anzi, nel maggior numero dei casi, l’esperienza si esaurisce nel corso di pochi giorni o addirittura di poche ore.

 

Quelle “lingue” non possono trarre in inganno una chiesa provvista di discernimento e quei “battesimi” non possono essere confermati in un sano ambiente pentecostale, ma coloro che accettano quelle lingue sono pronti anche ad accettare e difendere i “battesimi” senza accorgersi che il fenomeno è stato soltanto il risultato di una eccitazione che in quanto collettiva ha potuto addizionare o addirittura moltiplicare gli effetti conseguenti all’emozione provocata con abilità da quei predicatori che riescono a far piangere, ridere o esultare toccando semplicemente le corde del sentimento umano cioè sfruttando il più semplice dei metodi psicologici.

 

Voglio anche ammettere che in questa attività ministeriale non ci sia “malafede”, ma l’ammissione non modifica il giudizio relativo ai risultati e può soltanto far concludere che tutto viene fatto e tutto viene conseguito a livello di una superficialità che dimentica, che vuol dimenticare, che le “realtà spirituali” sono realtà sacre e devono perciò essere realizzate con impegno onesto e con sincerità responsabile.

 

Le falsificazioni della glossolalia si verificano e non infrequentemente, anche nella sfera della suggestione imitativa; ho già accennato a “suoni ed esplosioni fonetiche” ricorrenti in gruppi di credenti, uniti anche formalmente nell’esperienza delle “lingue”. Vicini gli uni agli altri sono giunti a comunicarsi vicendevolmente l’espressione delle proprie emozioni, attraverso la ripetizione incessante di quei suoni che alla fine sono riusciti a sostituirsi alle proprie parole. E’ un processo molto simile a quello che viene conosciuto col nome di “lavaggio del cervello” e che non può assolutamente essere accettato come azione dello Spirito Santo.

 

Ancora una volta bisogna ripetere: “E’ lo Spirito che “porta” le (vere) lingue e non sono le lingue che portano lo Spirito e dobbiamo perciò guardarci e difenderci dalla tentazione che può colpire tanto il ministro, quanto il credente e che induce ad avere a tutti i costi e con tutti i metodi il “segno” delle lingue. Cerchiamo il battesimo dello Spirito e quando questa esperienza sarà realizzata, le lingue, le vere lingue, verranno spontaneamente perché saranno espresse dalla Persona divina che ha preso possesso del credente.

 

L’argomento delle imitazioni e delle falsificazioni non può essere chiuso senza ricordare che alla glossolalia celeste è anche contrapposta la glossolalia satanica; anche il diavolo può suscitare un fenomeno che esteriormente può assomigliare al “dono” spirituale del quale parliamo. Ho ricordato in altra parte che un antico rituale nell’istruire gli esorcisti e nel fornire informazioni relative al modo di riconoscere l’esistenza di una vera possessione demoniaca, cita fra i diversi “segni” quello di “una lingua straniera e misteriosa parlata dall’indemoniato senza che questi l’abbia studiata o la conosca”.

 

Il rituale romano non ricorda che questa è soltanto un’ipotesi e quindi generalizzata, ma devo ammettere che nel dare queste indicazioni si riferisce ad una realtà che non può e non deve essere ignorata. Benché devo respingere energicamente le conclusioni di alcuni autori moderni che per determinata ostilità nei confronti del movimento pentecostale, hanno fatto di “questa ipotesi” la sola possibile nella spiegazione del fenomeno delle lingue, non posso escluderla dalle tante da prendersi in considerazione e non soltanto perché accetto la dichiarazione di Lutero: “Satana cerca di essere la scimmia di Dio”, ma perché l’esperienza personale mi ha confermato che l’inferno cerca introdursi nella chiesa attraverso il canale della vita carismatica e in modo particolare attraverso al falsificazione e le imitazioni della profezia, della glossolalia e della taumaturgia. Abbiamo quindi una ulteriore ipotesi delucidativi a riguardo del problema che ci turba in questi giorni, quello della macroscopica incoerenza esistente in certi circoli carismatici dove di fronte a presunti fenomeni spirituali, fanno riscontro aberrazioni dottrinali e morali assolutamente incompatibili con una autentica esperienza cristiana.

 

Se col “parlare in lingue” non si manifesta in maniera parallela l’evidente presenza dello Spirito che è “potenza” di conoscenza, di santità, di servizio, di amore, c’è ampia ragione di dubitare della genuinità del fenomeno e se poi assieme alla glossolalia appare addirittura l’immoralità più sfrontata e l’eresia più provocatoria, non c’è da essere audaci nell’individuare nella manifestazione fonetica una sottile astuzia del diavolo.

 

Oggi, purtroppo, non sono molti i circoli cristiani, comunità o associazioni, che avvertono il bisogno di “discernimento spirituale” per penetrare fino all’essenza della vita e dei fenomeni; sembra quasi che si tema l’analisi che potrebbe mettere in evidenza l’esistenza di troppo “paglia e stoppia” (I Cor.3:12) che si aggiungono con molta fretta sopra il fondamento cristiano per far crescere rapidamente una costruzione che si sviluppa in maniera inconsistente fra l’euforia ed il rumore. In quanto al “rumore”, anche se non è quello del cielo, è tenuto in grande considerazione e per molti rappresenta il necessario distintivo che qualifica la comunità ed il credente.

 

Il “dono delle lingue” autentico non è mai una specie d’inceppamento vocale, non è mai arida ripetizione di una sola frase misteriosa, non è mai imitazione di suoni emessi in un circolo eccitato, non è mai fredda dizione, non è mai discorso oscuro che provoca turbamento spirituale. Il “dono delle lingue” è fluire dolce, caldo di un discorso che anche se incomprensibile sgorga come un fiume di gloria che esalta, magnifica Dio e benedice, assieme al glossolalo, coloro che lo circondano; è il discorso dello Spirito Santo e quindi non può non avere quelle caratteristiche che dimostrino la presenza e l’azione della Persona divina.

 

E’ importante considerare sempre e considerare a fondo il problema della relazione fra il battesimo nello Spirito e “il dono delle lingue” che è poi la stesa relazione fra il battesimo ed ogni altro carisma dello Spirito, affinché non si giunga alle troppo facili soluzioni di vedere la “glossolalia” dove la glossolalia non c’è o di ravvisare il battesimo pentecostale dove questo è assente nel modo più assoluto. La Pentecoste è un “vento impetuoso”, un “fuoco ardente”, un “fiume di parole straniere”, e soprattutto “potenza soprannaturale” e non deve perciò essere confusa con quelle manifestazioni che qualche volta vengono suscitate soltanto per dare prestigio al ministero o al programma di sedicenti revivalisti.

 

In ogni circolo carismatico devono essere desiderati e ricercati tutti i doni spirituali e quindi non deve essere dimenticato quel dono di “discernimento” che permette di penetrare il misterioso mondo spirituale per distinguere con vera precisione i fenomeni che si manifestano. “Provate gli spiriti…” (Giov.4:1) deve essere considerata una raccomandazione attuale e non soltanto per difendere la chiesa da quelle interferenze o invadenze che possono manifestarsi nell’esercizio del culto e particolarmente nella ricerca e nell’uso del dono delle lingue che sembra prestarsi in maniera particolare, per la propria fisionomia formale, alle falsificazioni o alle approssimazioni; mi sia consentito anche quest’ultimo termine che vuole riferirsi ad esperienze spirituali, a stati quasi estatici, o piuttosto euforici che provocano spesso una reazione emotiva e che si manifestano anche con fenomeni fonetici che alcuni interpretano come dono delle lingue.

 

Forse non era esagerata la prudenza dei “padri” del movimento pentecostale che esprimevano una conferma del battesimo nello Spirito soltanto quando il credente si trasformava in un “torrente di gloria” di “acqua viva”; (Giov.7:37) un torrente di lingue, chiare, fluide, variate che riusciva a far scendere la benedizione su tutta la comunità. Un solo battesimo nello Spirito era sulla nuova vita e nuova benedizione per la chiesa a differenza di quello che si può constatare spesso in questi giorni, quando il verificarsi di “decine” di battesimi (o presunti battesimi nello Spirito) non producono nulla nel grigiore della vita cristiana dei credenti e delle comunità.

 

Auspichiamoci nel cospetto di Dio un ritorno alla Pentecoste vera, al battesimo nello Spirito originale, alla glossolalia autentica, ma assieme all’auspicio poniamo sull’altare un impegno responsabile ed umile per una ricerca ed una vita realmente spirituale. L’impegno sarà realmente responsabile se non ci saranno soltanto preoccupazioni dogmatiche di sapore confessionale, quelle preoccupazioni cioè che nascono quasi sempre dal bisogno di difendere strutture organizzative o limiti denominazionali.

 

La “glossolalia” dono delle lingue o evidenza del battesimo nello Spirito non deve essere affermato con l’enunciazione e la difesa di un articolo del credo, ma piuttosto con la coerente manifestazione degli effetti reali dell’esperienza pentecostale.

 

In altre parole si può dire che non serve alla causa della testimonianza cristiana e alla vita spirituale della chiesa, chiedere ai ministri e alle comunità una dichiarazione di fede (o di credulità o di adesione formale) periodica ed incondizionata al principio dogmatico del battesimo pentecostale con l’evidenza della glossolalia, senza chiedere un atto di fedeltà a tutta la Parola di Dio.

 

La stessa incoerenza che emerge in certi movimenti carismatici o neo-pentecostali dove si vuol dare una collocazione al battesimo nello Spirito in mezzo ad elementi di confusione teologica o di rilassamento morale, appare anche in tutti quei settori ove alla difesa della vita carismatica non fa riscontro quella della santità cristiana. Non sono poche le chiese, nel mondo definito pentecostale, che ai nostri giorni si sono schiuse ad un processo di mondanizzazione che continua a cancellare progressivamente tutte quelle caratteristiche di autentica spiritualità che ieri si fondevano alla vita carismatica della chiesa.

 

Non possiamo dar sempre torto a coloro che, amareggiati da incontri deludenti, hanno purtroppo finito col concludere che qualche volta “senza lingue” si può essere cristiani migliori di coloro che si vantano di essere glossolali.

 

Attenzione: mi riferisco ad esperienze fatte in ambienti ove il “battesimo” e i “doni dello Spirito” sono affermati mediante arida teoria e in aperto contrasto con una pratica sempre meno cristiana.

 

“Signore, rinnova la Pentecoste! Rinnovala nel mezzo di quanti, anche oggi, sono assetati di Te e vogliono essere riempiti e posseduti dalla Tua potenza in un battesimo spirituale che ci dia i doni, il frutto, il servizio, la potenza del cielo. Amen!”

 

EMOTIVITA’ E GLOSSOLALIA

 

“Costoro sono pieni di vino dolce” (Fatti 2:13)

 

Certamente non dovevano essere soltanto le parole, espresse nelle più diverse lingue, a lasciare perplessi e a suscitare la reazione negativa della folla di Gerusalemme o piuttosto di quella parte della folla sconcertata dalla manifestazione carismatica dei primi cristiani.. Alle parole si aggiungevano diverse forme di emozione religiosa che non potevano essere represse e forse neanche controllate da quei credenti che avevano esperimentato in modo tanto potente il battesimo nello Spirito Santo.

 

Non è difficile immaginare lo spettacolo offerto dai primi discepoli che, d’altronde, appartenevano ad un popolo predisposto alle emozioni e al più libero corso di queste anche nell’ambito della rigorosa vita religiosa. Erano stati saturati di Spirito, erano stati testimoni dell’evidenza sensibile del miracolo, erano diventati loro stessi miracolo: quel vento che avevano udito, quel fuoco che avevano veduto, adesso erano dentro di loro e non potevano, assolutamente non potevano, non esternare quell’impeto e quel calore.

 

Anche le lingue straniere quindi dovevano avere l’evidenza dell’emozione e potevano facilmente essere poste sotto giudizio dalla sorpresa o dalla diffidenza di coloro che li ascoltavano e non possiamo meravigliarci se anziché verificarne il contenuto si limitavano a criticarne la forma. La critica negativa, espressa il giorno della Pentecoste, quando le lingue erano straniere a coloro che parlavano, ma non a coloro che ascoltavano, era destinata a diventare più severa nei confronti della glossolalia quale espressione di una lingua sconosciuta tanto al glossolalo, quanto all’uditorio; il linguaggio incompreso ed incomprensibile non poteva non inasprire le diffidenze, specialmente quando una precostituita attitudine di ostilità rendeva particolarmente severi i critici.

 

L’Apostolo Paolo nell’affrontare l’argomento delle lingue non omette questo particolare e raccomanda caldamente ai credenti di Corinto di non dimenticarlo. Parlare in lingue senza che queste siano interpretate, o parlare tutti assieme in una lingua incomprensibile, darà modo ai visitatori nelle assemblee, di dire che i cristiani, uniti per celebrare il loro culto,sembrano purtroppo dei poveri pazzi (I Cor.14:23).

 

La Scrittura non ci fornisce altri riferimenti storici relativi, in modo specifico, a questo problema, ma nel ricordarci che i cristiani erano già giudicati pazzi per la loro professione di fede (I Cor.3:18), per il loro modo di vivere, per il loro messaggio e la loro dottrina (Fatti 26:25; I Cor.2:14), ci fornisce le premesse per comprendere il fenomeno che ricordiamo. Se il cristianesimo, nei suoi aspetti più limpidi e nelle sue manifestazioni più convincenti, continua ad essere scandalo per il mondo è comprensibile che lo sia ancora di più in quelle espressioni che possono definirsi ermetiche per coloro che sono estranei alla vita dello Spirito.

 

La “glossolalia” deve essere inclusa senza esitazione fra quelle forme della vita cristiana che ho definito ermetiche, cioè non soltanto chiuse, ma anche resistenti alle analisi della ragione. Da un punto di vista generale la vita dello Spirito in ogni suo aspetto è chiusa alle analisi della ragione (I Cor.2:14) quando questa rifiuta a “priori” le affermazioni della fede, cosa d’altronde che rappresenta la regola e non l’eccezione.

 

La storia si sofferma più a lungo di quanto faccia la Scrittura, benché spesso in maniera generica, nel tramandarci le testimonianze relative alle reazioni che si sono avute e non sempre dall’esterno, nei confronti dei fenomeni dello Spirito. Si può parlare al plurale di “fenomeni” perché, come già detto, non sempre si è fatta o si fa distinzione fra: “voci” “visioni” “estasi” “tremolio” “profezie” “fenomeni taumaturgici” o “glossolalia”.

 

Quei movimenti di risveglio spirituale che hanno fatto rivivere l’atmosfera del miracolo e che hanno esperimentato, spesso in forme diverse, una esuberante vita carismatica, sono stati considerati in ogni epoca con rispetto da pochi e con severità da molti; le accuse che più comunemente e più ripetutamente sono state di “pazzia” e “d’invasione satanica” e non dobbiamo meravigliarci neanche di questi eccessi, perché anche nei confronti del Maestro sono state formulate queste stesse valutazioni, questi giudizi (Matteo 12:24).

 

Quel che sembra incomprensibile è piuttosto il fatto che tante forme di emotività umana, espresse nelle più diverse sfere del costume, siano accettate dalla società come fenomeni naturali e quindi normali della vita, mentre quelli che affiorano nella vita religiosa vengono severamente stigmatizzati come una forma di follia. Altrettanto incomprensibile il fatto che si propende ad ammettere le capacità soprannaturali del diavolo e la manifestazione di queste capacità negli uomini e attraverso gli uomini, ma si rifiuta il principio di una manifestazione divina e carismatica nel credente e nella chiesa.

 

Si può leggere, per esempio, nel Rituale Romano: “Ignota lingua loqui pluribus verbis, vel loquentem intelligere…” Attenzione! Non è un riferimento al dono delle lingue, largito dallo Spirito Santo, ma è la definizione di uno dei tre segni che permettono all’esorcista di riconoscere se un individuo è indemoniato. Quindi per la Chiesa Cattolica “l’uso e la conoscenza di una lingua prima sconosciuta” è senz’altro evidenza di possessione demoniaca.

 

Nel corso dei secoli, e specialmente di quelli oscuri che i roghi non hanno certamente illuminati, non pochi credenti hanno dovuto pagare con la vita il privilegio di possedere, mediante una vera comunione con Dio, preziosi doni spirituali; oggi che si vogliono erigere monumenti a quei profeti che i padri hanno ucciso, si tenta di ristabilire almeno la verità storica ed accettare che molti “eretici” o “invasati” o “stregoni” di ieri erano in realtà uomini illuminati che hanno avuto il solo torto di rendere pubbliche le proprie esperienze e le proprie convinzioni.

 

Ovviamente questa riabilitazione vale soltanto per nomi che hanno da sempre avuta una loro collocazione nella storia, ma non vale per quei nomi, di persone o di movimenti, che volutamente o per ineluttabili circostanze, sono stati e sono ignorati. Facciamo astrazione dagli episodi e consideriamo globalmente il soggetto: Solo in rari casi, e generalmente per ragioni interessare, i fenomeni dello Spirito, i carismi, sono stati riconosciuti ed accettati con il segno dell’ufficialità, e spesso in questi casi, sono stati strumentalizzati a beneficio dell’istituzione che li ha accolti ed esaltati come elementi di prova della propria ortodossia.

 

Le eccezioni servono solo per ricordarci la regola e questa ha avuto ed ha come principio e base la dichiarazione dei pellegrini di Gerusalemme: – Costoro sono pieni di vino dolce! E’ stato detto per i primi discepoli ed è stato ripetuto nel corso dei secoli per tutti quei movimenti spirituali che hanno esperimentato il soprannaturale e la hanno manifestato mediante una autentica vita carismatica; solo per riferirci ai più vicini vogliamo ricordare i valdesi, i francescani, i quaccheri, i metodisti, i battisti, i mennoniti; ovviamente parliamo di questi movimenti in relazione alla loro genesi e quindi prescindendo dalla trasformazione che possono aver subita sotto la sollecitazione di circostanze storiche e che possono averli spogliati delle caratteristiche iniziali per condurli verso assesti conformi a nuove concezioni.

 

Comunque la Scrittura e la storia sono concordi nel ricordarci che i fenomeni spirituali, le manifestazioni carismatiche non possono prescindere dalle emozioni del credente e che coloro che ieri sono stati giudicati “ebbri” si ritrovano nei “fanatici” del XII secolo, nei “tremolanti” di Fox e in coloro che anche nella nostra generazione hanno spesso ereditato lo stesso epiteto.

 

Come può un individuo che realizza la soprannaturalità di un fenomeno che gli permette di parlare in lingue sconosciute rimanere insensibile o apatico nell’esercizio di questo dono? Soprattutto come può il credente che nell’esercizio del dono avverte tutta la mistica dolcezza della presenza e dell’azione dello Spirito, frenare le più spontanee reazioni emotive?

 

Non dobbiamo quindi scandalizzarci o meravigliarci se il glossolalo, come d’altronde l’interprete o il profeta, appare all’occhio dell’osservatore, particolarmente di quello critico ed ostile, in uno stato di euforia, qualche volta di estasi, che rispecchia anche attraverso l’emotività, l’esperienza celestiale che vive e che cerca di trasmettere per rendere una testimonianza cristiana.

 

LA GLOSSOLALIA IN RELAZIONE AL BATTESIMO NELLO SPIRITO

 

Non tutti accettano il principio biblico che precisa che le esperienze spirituali possono essere molteplici e multiformi ed è per questo che ritengo utile precisare che, quando noi parliamo di “battesimo nello Spirito”, non ci riferiamo “alla confessione di fede” “alla rigenerazione” o ad una qualsiasi generica esperienza spirituale, ma a quella vera, completa immersione, che è anche saturazione, traboccamento, che conferisce potenza, che abilita il credente alla testimonianza, alla vita eroica (Fatti 1:5; 2:38).

 

Se durante i decenni del nostro secolo c’è stato un movimento che ha saputo svolgere un servizio dinamico e che ha potuto vedere risultati sorprendenti, e mi riferisco al movimento pentecostale, questo movimento c’è stato e c’è con tutta la propria esperienza in virtù del battesimo nello Spirito che è potenza che supplisce abbondantemente alle carenze culturali, economiche, organizzative che questo movimento spesso accusa nei confronti delle chiese storiche.

 

Ho detto “battesimo nello Spirito” e non “glossolalia” perché è fondamentalmente inesatto che l’unico elemento o l’elemento centrale che caratterizza il movimento pentecostale nei confronti delle diverse denominazioni evangeliche, sia costituito dal “dono delle lingue”. E’ vero che il credo delle diverse organizzazioni pentecostali ha sempre un articolo, che con qualche piccola differenza fra l’una e l’altra, recita costantemente: -”Noi crediamo al battesimo nello Spirito che si riceve con il segno delle lingue”, ma è anche vero che per la collocazione stessa delle “lingue” semplicemente quale segno evidenziale del battesimo, e quindi come un dettaglio del credo, si può concludere che queste vengono accettate per l’esatta misura che hanno nella vita cristiana in generale e nella vita carismatica in particolare.

 

Riferendomi alla mia esperienza personale ho già detto, in altra parte di questo scritto, che la glossolalia, quale manifestazione carismatica e quindi quale evidenza sensibile del battesimo nello Spirito, è stata esperimentata da me ed anche da tutti coloro, indistintamente, che ho personalmente veduti “battezzati” in quello che ormai è definito il “battesimo pentecostale”. Ma con questo non voglio affermare l’esistenza di una dogmatica assolutamente chiusa, anzi voglio ricordare che ci sono almeno due aspetti del problema aperti all’indagine e quindi alla fraterna discussione. Vengo subito al primo di questi punti:

 

- Quale relazione c’è fra le “lingue” che si parlano nel momento che lo Spirito Santo ci riempie, ci battezza e le lingue di cui scrive Paolo nella prima epistola ai Corinzi, cioè il “dono carismatico”.

 

Molti rispondono: le prime sono un “segno” che può anche cessare dopo un po’ di tempo (sic) e le altre sono il “dono” che so manifesta in colui che è stato prima battezzato nello Spirito Santo.

 

A mio avviso la risposta è tutt’altro che completa e soprattutto non mi sembra che abbia un fondamento biblico perché dal più spontaneo degli esami si può solo dedurre che all’atto del battesimo nello Spirito si manifesta, nel credente, quale evidenza sensibile, il “dono delle lingue” .

 

E’ vero che Paolo parla della glossolalia come di un “segno” agli inconvertiti, ma egli non usa questo termine per contrapporlo al “dono”, anzi quando compie la sua dissertazione lo fa proprio per ampliare ed approfondire la conoscenza esatta del “dono”, per Paolo quindi il “segno” è il dono e il “dono” è un segno.

 

E’ anche vero che nel Vangelo secondo Marco è detto del “parlare altri linguaggi…” che è un “segno”, ma è altrettanto vero che è semplicemente ricordato come un “segno” della fede del cristiano ed è “segno” assieme all’esorcismo, alla taumaturgia che indubbiamente sono “doni” dello Spirito.

 

Se, come ha fatto qualcuno, vogliamo usare Marco 16:17,18 per sostenere l’esistenza di un “segno”, che si differenzia formalmente o sostanzialmente dal “dono” dobbiamo anche concludere che questa specificazione carismatica deve essere estesa anche alle “potenti operazioni”, alle “guarigioni”…e conseguenzialmente a tutti i doni dello Spirito, mentre, per riferirci a un solo passo noi leggiamo in Atti 19:6 che gli Efesini battezzati nello Spirito parlavano “lingue” e “profetizzavano” e pochi hanno affermato che anche la profezia possa essere qualche volta un “segno” od essere, qualche altra volta, un “dono”, benché proprio in riferimento alla profezia sarebbero invece autorizzate delle distinzioni che non è opportuno ricordare in questo scritto, che è limitato al soggetto delle “lingue”.

 

Domandiamoci: che cos’è la glossolalia? La risposta è ampiamente scontata: – una manifestazione soprannaturale che permette al credente di esprimersi in una lingua a lui sconosciuta; quindi la natura della glossolalia è lo Spirito, la forma è una lingua sconosciuta; non ha importanza quando e dove ci sia la manifestazione: se per la prima volta o da molte volte, essa è sempre glossolalia, cioè il “dono delle lingue”. Casomai si può distinguere tra possesso del dono e opportunità di usarlo nella guida di Dio, e quindi si può tornare allo scritto di Paolo con l’esortazione: “Parlino due o tre al più…” ammette la presenza nella chiesa di tanti glossolali (o addirittura di una comunità interamente carismatica), ma raccomanda di limitare l’esercizio del dono nel tempo e nel numero.

 

D’altronde i discepoli di Gerusalemme non hanno espresso messaggi in lingue? Non è forse avvenuto molte volte che il credente nel momento che è stato battezzato ha espresso messaggi o interpretati o dati in un’altra lingua a lui sconosciuta, ma conosciuta da qualcuno dei presenti? Che differenza può essere ravvisata fra queste manifestazioni e quelle tanto chiaramente descritte da Paolo e che egli definisce “dono delle lingue”?

 

La mia personale conclusione è che il battesimo nello Spirito immerge il credente “anche” nella vita carismatica che si “evidenzia” in lui con la manifestazione del “dono soprannaturale”.

 

Continuando a sviluppare il tema “segno” “dono” e proprio in forza di questa opposizione, ritorna il quesito già accennato: le “lingue” rimangono patrimonio del credente, assieme al battesimo, o possono cessare dopo un poco di tempo? Anche su questo punto evito di dogmatizzare, nonostante che la mia modesta, personale esperienza, ma che posso unire a quella eminente di Paolo (I Cor.14:18), mi incoraggerebbe ad affermare categoricamente: le lingue rimangono come una componente del tesoro spirituale del credente; ma più che un’affermazione è che in quanto basata sopra esperienze personali, potrebbe essere considerata soggettiva, ritengo utile una chiarificazione: nessuna esperienza spirituale e quindi neanche il battesimo rimane patrimonio del credente se on è costantemente alimentata e rinnovata nel corso della vita.

 

L’argomento andrebbe approfondito e sviluppato, ma ci porterebbe fuori e lontano dal nostro soggetto immediato, ma per rimanere in questo basta ricordare che in Gerusalemme almeno una parte di coloro che erano stati “riempiti” di Spirito Santo nel giorno della Pentecoste, furono nuovamente “riempiti” a conclusione di una riunione di preghiera promossa e tenuta alle prime avvisaglie di persecuzioni (Atti 4:31). Quindi coloro che erano stati già “battezzati” furono “battezzati” di nuovo, se essere riempiti vuol dire essere battezzati, o essere battezzati vuol dire essere riempiti.

 

Il riferimento storico che potrebbe essere arricchito da una serie nutrita di testimonianze analoghe, sembra precisare un principio di dottrina e cioè quello già anticipato: – il battesimo nello Spirito, rappresenta un’esperienza permanente nel credente a condizione che la “pienezza” realizzata sia conservata mediante il rinnovarsi di un incontro con Dio. A questo punto si può affermare che è almeno incoerente affermare che le lingue, evidenza del “battesimo”, possono scomparire, mentre il battesimo stesso continua a rinnovarsi cioè ad essere un “nuovo battesimo”: se a “battesimo” fa riscontro “glossolalia”, le due realtà devono sussistere o scomparire soltanto nella loro relazione e cioè fino a tanto che il credente è “immerso” il fenomeno carismatico deve essere presente, quando il credente esce fuori da questa esperienza può cessare ogni manifestazione od ogni effetto dell’esperienza stessa.

 

Naturalmente, come è stato ripetutamente detto, il possesso di un dono non implica l’uso indiscriminato di questo, ma fra i doni che in misura maggiore possono essere inventariati nella chiesa pentecostale, la “glossolalia” occuperà sempre un posto d’avanguardia per la sua stretta relazione col battesimo nello Spirito Santo.

 

Un servo di Dio, autentico pioniere del movimento pentecostale, amava ripetere che egli sentiva il bisogno di un “nuovo battesimo” ogni mattina e per questo motivo rimaneva in preghiera fino a tanto che “fiumi di linguaggi” sgorgavano dalle sue labbra. Non voglio dare a questa testimonianza l’autorità della Scrittura, che d’altronde non si pronuncia su questo punto, ma ho creduto opportuno citarla perché rappresenta un’ottima illustrazione del soggetto.

 

Purtroppo non sono pochi coloro che hanno desiderato, cercato e realizzato il battesimo, ma poi lo hanno totalmente trascurato e completamente soffocato; perché qualsiasi esperienza può essere distrutta. In questi, qualche volta, si odono ancora linguaggi, ma si avverte chiaramente che sono soltanto ricordi mentali che vengono espressi senza nessun segno di vita, mentre altre volte non si odono più linguaggi e purtroppo non si avverte nessun altro segno di vera vita spirituale; quando l’opera rovinosa è stata condotta all’estreme conseguenze.

 

Ho detto “vera vita spirituale”; questa è una realtà che non va confusa con la “vita religiosa” nel senso più abusato di questo termine; possiamo infatti incontrare credenti, dirigenti ecclesiastici, ministri esteriormente perfetti nella loro vita religiosa o ecclesiastica, ma completamente privi delle risorse dello Spirito ed ovviamente totalmente sforniti delle caratteristiche della vita cristiana.

 

Esaurita brevemente l’analisi del primo dei due problemi, passo al secondo:

 

La “glossolalia” è solo e sempre il segno carismatico che evidenzia il battesimo nello Spirito?

 

Sono state scritte tante cose sull’argomento, spesso inesatte, spesso mordaci, spesso provocanti e quindi mi limito a prendere in considerazione soltanto l’osservazioni più serene e più impegnative per un confronto serio e fraterno.

 

Voglio ricordare anzi che nel passato ho cercato sempre di evitare un attrito polemico e mi sono limitato a ricordare che il “battesimo” non deve essere confuso con altre e diverse esperienze spirituali e non deve neanche essere affermato dove c’è stata soltanto una piacevole emozione religiosa o una sensazione mistica perché la Scrittura lo descrive come un fenomeno che saturando di potenza il credente, lo rende anche traboccante di gloria, di gioia e di vita carismatica.

 

Quanto scritto o detto è stato forse troppo prudente o troppo generico; in questo modesto studio però supero ogni schema precedente perché l’argomento lo impone; infatti il soggetto immediato non è il “battesimo nello Spirito”, ma la “glossolalia”, ed affrontando questo argomento è necessario giungere alla definizione del pensiero in termini precisi.

 

Non prendo in considerazione un “articolo di fede” e non stabilisco premesse derivanti da affermazioni dogmatiche che, autorevoli che siano, chiedono sempre il conforto della Scrittura. È logico quindi che l’analisi ed il confronto abbiano essenzialmente un fondamento biblico e credo che possiamo concordare tutti sulla scelta del libro dei Fatti quale testo peculiare e che almeno in sei punti si sofferma chiaramente sull’esperienza del “battesimo nello Spirito” o, se vogliamo usare altra definizione, sulla “pienezza dello Spirito”.

 

Scelti i passi, è possibile esaminarli nel confronto delle tesi divergenti per approfondire e chiarire il problema.

 

I versi a cui mi riferisco, dal libro dei Fatti, sono i seguenti:

 

 

 

2:4 “…tutti furono ripieni dello Spirito Santo e …”

 

4:31 “…tutti furono ripieni dello Spirito Santo…e …”

 

8:17 “…essi ricevettero lo Spirito Santo”

 

9:17 “…sii ripieno dello Spirito Santo”

 

10:44 “…lo Spirito Santo cadde sopra tutti coloro che li udivano”

 

19:6 “… lo Spirito Santo venne sopra loro…” .

 

 

 

 

 

Non tutti, nell’affrontare l’argomento del “battesimo” e quello connesso alla “glossolalia”, compiono la stessa scelta di versi biblici, anzi i più omettono generalmente Fatti 4:31 e 9:17, ma io credo che non si possa trascurare nessun elemento utile all’approfondimento del problema, soprattutto nessun elemento che, come quelli che emergono dai due versi, hanno un profilo storico che può essere particolarmente chiarificatore.

 

Per inciso si può ribadire che il “battesimo nello Spirito”conferisce sempre una potenza, una autorità, un dinamismo e questo appare in modo inequivocabile nel libro dei Fatti ove la dizione “pieno di Spirito Santo” è sempre collegata con la manifestazione della soprannaturalità nella vita e nel servizio del credente. (Fatti 4:8, 6:5, 7:5, 13:9)

 

Confermato il fatto che l’esperienza del battesimo si distingue da tutte le altre esperienze spirituale torniamo al soggetto immediato e cioè a quello della relazione fra battesimo e glossolalia.

 

Le conclusione esegetiche del Movimento pentecostale sono note, ma per il confronto che desidero fare devo necessariamente ricordarle articolandole in relazione ai versi scelti:

 

1) Fatti 2:4 “Presero a parlare in lingue straniere, secondo che lo Spirito dava loro a ragionare…”

 

2) Fatti 4:31 “…e parlavano la Parola di Dio con franchezza”

 

3) Fatti 8:18 “…veggendo che per l’imposizione delle mani degli apostoli, lo Spirito Santo era dato…”

 

4) Fatti 9:18 “in quell’istante gli caddero dagli occhi come delle scaglie”

 

5) Fatti 19:6 “…e parlavano lingue strane e profetizzavano”

 

6) Fatti 10:46 “…li udivano parlare diverse lingue e magnificavano Dio”.

 

L’esame sereno, anche frettoloso di questi versi, fa emergere, in maniera inequivocabile, due elementi:

 

 

 

Il “battesimo” è sempre collegato ad evidenza carismatica e a fenomeni sensibili.

 

La “glossolalia” appare con insistenza ed evidenza.

 

 

 

 

 

Naturalmente dove la Scrittura non è esplicita, l’interpretazione viene data sulla base di quelle ipotesi che vengono suggerite dai passi che più chiaramente sembrano convalidare il “credo” pentecostale.

 

Ometto i versi contenuti nei cap. 4 e 9 del libro dei Fatti per la ragione già anticipata, cioè perché generalmente evitati dall’indagine esegetica. Non indugio su quelli dei capitoli 2 e 10 perché chiaramente aderenti alle conclusioni che stanno alle basi del credo pentecostale.

 

Mi soffermo invece a ricordare le “ipotesi” formulate nell’interpretazione degli altri due passi:

 

 

 

Fatti 8:18. Il battesimo realizzato dai Samaritani aveva un’evidenza che poteva essere constata tanto da “Simon Mago”, che la vedeva per la prima volta, quanto dagli apostoli che invece l’aspettavano come conferma alla replicarsi del miracolo che essi stessi avevano realizzato. Essi pregavano perché in Samaria vi fosse rinnovata sostanzialmente la Pentecoste, ma avevano bisogno di essere accertati anche attraverso la manifestazione dell’esperienza (Fatti 8:18).

 

Fatti 19:6. I credenti di Efeso, ripieni di Spirito Santo, entrano pienamente nella vita carismatica e inizialmente, come per tutti, principiano a parlare in lingue, ma nell’esuberanza della loro esperienza non si fermano alla manifestazione iniziale e proseguono con l’esercizio “anche” della profezia.

 

 

 

 

 

Mi sembra quindi che questi passi chiariti da un esame esegetico onesto dimostrano che la pretesa di quanti parlano di un battesimo nello Spirito realizzato senza evidenza carismatica, senza manifestazioni soprannaturali, senza acquisto di potenza, cioè di un “battesimo” conseguito attraverso una meccanica sacramentale o mediante una momentanea euforia emotiva, sono pretese prive di qualsiasi fondamento scritturale.

 

Mi sembra anche che gli attacchi spesso violenti ed ostili rivolti da più parti verso il “movimento pentecostale” in generale e verso il suo “credo” in particolare, non abbiano un solido fondamento perché quanto detto fin qui unisce perfettamente l’interpretazione biblica con l’esperienza del movimento; non si può assolutamente affermare, come hanno fatto alcuni, che la realtà storica del movimento pentecostale è in conflitto con le dichiarazioni della Scrittura.

 

Forse si può osservare che per completare il quadro analitico, l’interpretazione di alcuni passi biblici viene data sulla base di “ipotesi”, ma spero che tutti siano disposti ad ammettere che queste ipotesi non hanno nulla di ardito o di fantasioso, ma sono suggerite proprio da quei versi, da quelle parole della Scrittura che sono inequivocabili e particolareggianti.

 

Comunque una cosa appare fuori da ogni possibile controversia e cioè: – Il battesimo nello Spirito è sempre una vera “immersione” nella vita spirituale e quindi nella vita carismatica; da questa immersione non può non derivare la manifestazione di quei fenomeni costituiti dai doni dello Spirito dati da Dio per la edificazione del credente e della chiesa e poiché fra questi la “glossolalia” sembra essere, per la sua forma particolare, il più facilmente individuabile, non deve apparire strana la sua costante presenza nell’esperienza pentecostale.

 

Non voglio a questo punto chiudere l’argomento negando lo spazio a quanti onestamente affrontano il problema della glossolalia per risolverlo cristianamente; a quanti cioè pur dissentendo dal credo del Movimento pentecostale si dimostrano disponibili al dialogo fraterno e all’analisi sincera.

 

E’ giusto riconoscere che specialmente su quei punti ove sono state formulate delle ipotesi possano essere contrapposte altre ipotesi, come è giusto accettare che a conclusioni esegetiche o storiche possano essere confrontate altre conclusioni.

 

Seguiamo quindi la sintesi dei termini del problema, delle ipotesi e delle osservazioni formulate da quanti lo hanno affrontato e lo affrontano:

 

E’ certo che Saulo riempito di Spirito Santo quando Anania impose le mani sopra lui, abbia in quel momento ricevuto ed esercitato il dono delle lingue? Fatti 9:17. Certamente riacquistò la vista perduta tre giorni prima, ma nulla è detto della glossolalia che probabilmente fu esperimentata in epoca posteriore e poi diligentemente conservata dall’Apostolo I Cor.14:18.

 

E’ certo che i credenti di Samaria che realizzarono l’esperienza pentecostale in modo visibile, resero manifesto sensibilmente il miracolo mediante fenomeni carismatici e specificatamente mediante la glossolalia? Simon Mago vedeva (Fatti 8:18), senza partecipare personalmente, il miracolo, ma nulla è detto dell’aspetto formale del miracolo stesso, che quindi poteva anche differenziarsi nel seno della comunità.

 

E’ certo che i credenti di Efeso, che dopo il battesimo cristiano e l’imposizione delle mani, amministrati da Paolo (Efesi 19:6) furono riempiti di Spirito, parlarono “tutti” in lingue? Il testo biblico non sembra essere così assoluto e mentre sottolinea l’evidenza carismatica dell’esperienza, sembra differenziarla fra i credenti: alcuni parlavano in lingue, altri profetizzavano.

 

E’ certo che l’esperienza storica del movimento pentecostale possa essere presa come termine di misura per la definizione del problema della glossolalia quale segno distintivo del battesimo nello Spirito?

 

La storia del cristianesimo ci offre la visione di una ricca e forse ininterrotta serie di movimenti di risveglio e ci propone la costante testimonianza di grandi eroi della fede che anche quando hanno realizzato una esuberante vita carismatica non hanno però fatto della glossolalia il segno unico e indispensabile del battesimo nello Spirito Santo, pur non rifiutando la presenza di questo dono nel contesto del servizio cristiano. Movimenti che hanno illuminato le tenebre del primo e del tardo medioevo e che hanno suggellato con la vita dei martiri il loro messaggio; uomini che hanno lasciato il loro nome e la loro testimonianza come termine di confronto e come punto di riferimento sul sentiero dei santi: moltitudini che hanno confessato “Cristo in loro speranza di gloria” e che hanno affermato di essere stati battezzati nello Spirito Santo. Possiamo rifiutare le loro dichiarazioni, ignorare la loro testimonianza, sconfessare il loro servizio?

 

Possiamo dire che soltanto il movimento pentecostale, che soltanto i predicatori pentecostali, soltanto il messaggio pentecostale hanno la pienezza dello Spirito Santo e che quanti precedentemente hanno testimoniato di Cristo con la parola e con la vita, hanno realizzato un’esperienza inferiore?

 

Possiamo affermare che uomini come Finney, Fox, Penn, Moody, per citarne solo alcuni e forse neanche fra i più rappresentativi saranno riconosciuti, da noi, pieni di Spirito soltanto dopo che avremo accertato che ognuno di loro ha realmente parlato in lingue straniere? Siamo proprio certi che i passi biblici invocati pongano in maniera assoluta un’ipoteca alla sovranità di Dio? Essi non ci lasciano invece uno spazio per comprendere e credere che Egli riserva a se stesso l’autorità per operare con diversità di metodi e quindi ottenere varietà di manifestazioni?

 

Con questa serie di interrogativi, come si può notare, non si vuole contestare l’esperienza del movimento pentecostale, ma semplicemente il dogmatismo del suo credo, messo in relazione, soprattutto, all’esperienza di altri movimenti e a quello di eroici uomini del passato.

 

Dobbiamo ammettere che alcune ipotesi ed alcune osservazioni hanno indubbia validità perché non possiamo certamente rifiutare o contestare la testimonianza della storia del cristianesimo che ci propone non soltanto l’esempio di uomini e movimenti, ma anche e soprattutto l’evidenza di un filone carismatico che nel corso dei secoli ha mantenuto l’evidenza del soprannaturale in mezzo al popolo di Dio, pur non esprimendosi sempre in modo assoluto mediante il fenomeno della glossolalia.

 

Non posso e non voglio raccogliere osservazioni, come quelle di certi critici italiani e stranieri che troppo evidentemente mostrano la loro aspra posizione preconcetta, ma non posso neanche far cadere osservazioni che invece dimostrano chiaramente il proposito di approfondire e chiarire un problema appassionante.

 

Voglio quindi subito precisare che riconosco incondizionatamente il valore del ministerio di quei servi di Dio che hanno esercitato il loro servizio nella potenza dello Spirito. Ci sono nomi che incutono un grande rispetto e testimonianze di servizio che ci sovrastano e credo che tutti dobbiamo guardarci dal compiere raffronti più che irriverenti addirittura ridicoli. Voglio aggiungere che non credo che il battesimo nello Spirito possa essere considerato retaggio esclusivo del movimento pentecostale, benché proprio questo movimento abbia cercato, ottenuto e valorizzato in un periodo storico che ne aveva oscurato la realtà teologica, quanto quella esperimentale; nel succedersi delle epoche la promessa divina ha sempre conservato validità ed attualità e, come già detto in precedenza, il vero popolo di Dio è stato sempre il popolo del miracolo.

 

Posso aggiungere che forse storici e biografi non si sono sempre impegnati intorno a quegli aspetti della vita cristiana ritenuti marginali e quindi soltanto in alcuni casi sono entrati nel merito delle manifestazioni sensibili alla vita carismatica. Questa circostanza ci autorizza a congetturare che la “glossolalia” non ha potuto sempre trovare un posto fra i tanti particolari storici ricordati dalle testimonianze giunte fino a noi, ma anche qui si può formulare un’ipotesi e pensare che le “lingue” abbiano avuto una presenza molto più consistente di quella ricordata dai vari testi.

 

Comunque una considerazione veramente serena delle tesi opposte permette di affermare che molti punti che sembrano divergenti possono invece essere considerati convergenti e finiscono anzi per indurci ad evitare un troppo rigido dogmatismo od una prolungata e sterile polemica; cerco di riepilogare questi punti:

 

 

 

La glossolalia, dono dello Spirito, si manifesta chiaramente quale effetto del battesimo pentecostale, in Gerusalemme, in Cesarea, in Efeso.

 

Ancora in Gerusalemme, a Damasco (Fatti cap. 4, 8, 9) la pienezza dello Spirito è sempre accompagnata da una manifestazione carismatica assolutamente sensibile.

 

Queste manifestazioni sensibili possono anche includere la glossolalia, ma mancando una precisazione esplicita nei testi, possono anche aver avuto la glossolalia, ma assieme ad altri segni carismatici come sembra affermare il miracolo di Efeso (Fatti 19).

 

Le varie descrizioni del libro dei Fatti non vogliono definire una dottrina, ma descrivere un’esperienza che per tutti è stata sostanzialmente identica.

 

 

 

 

 

Mi sembra che anche dopo aver dato spazio alle tesi opposte, rimanga valida quella del movimento pentecostale che sottolinea quelle dichiarazioni della Scrittura che evidenziano la relazione fra “battesimo” e “glossolalia”. D’altronde questa tesi si armonizza con la testimonianza resa nel tempo da tutti i credenti di questo movimento e che non può certo essere invalidata per ragioni polemiche, e s’armonizza anche con l’invocato principio della “Sovranità di Dio” che ha voluto operare esattamente nei modi chiariti tanto dal “credo” quanto alla testimonianza pentecostale.

 

Le caratteristiche dei movimenti di risveglio si sono sempre differenziate, ma tutte hanno avuto il segno evidente della benedizione di Dio che nel Suo piano di amore e di sapienza ha rivelato i Suoi intendimenti in ragione di circostanze e di propositi che non sempre sono o sono stati accessibili alla nostra ragione. Egli è rimasto sempre il Signore e proprio nell’esercizio della Sua sovranità ha attuato i Suoi programmi in relazione a quelle esigenze che noi non sappiamo sempre penetrare, ma che Egli conosce ed affronta con sapienza.

 

Forse a questo punto sono debitore di una conclusione, ma devo darne necessariamente due:

 

 

 

La mia esperienza personale che si unisce a quella dei miei fratelli pentecostali e che ha quindi un fondamento storico, mi induce ad interpretare la Scrittura nel senso del credo del movimento:- “Credo al battesimo nello Spirito Santo come ad una esperienza indipendente a quella della salvezza, e che si manifesta nel credente con il “dono delle lingue” come ai giorni della Pentecoste”.

 

Questa dichiarazione teologica non soltanto non vuole essere affermazione di priorità nei confronti di altri movimenti di risveglio o di revivalisti di qualsiasi epoca o luogo, ma non vuole neanche contestare la validità di esperienze spirituali che hanno conferita autentica potenza per testimoniare di Cristo e per conquistare i perduti alla croce del Calvario.

 

 

 

 

 

Dio opera sempre con coerenza e in perfetta armonia con la Sua Parola, ma dobbiamo sinceramente ed umilmente confessare che troppo spesso la luce da noi posseduta ci autorizza a pronunciarci con riserva e solo entro i limiti di quella rivelazione relativa che abbiamo mentre vogliamo proclamare l’assoluto…ed essere assolutisti.

 

Le ultime parole:- Ringrazio Dio che ho ricevuto ed ho questo dono di parlare in lingue (I Cor.14:18), ma ringrazio Dio per ogni opera compiuta in ogni uomo e attraverso ogni uomo; ringrazio Dio per i movimenti e per i servitori che hanno mantenuta accesa la luce della verità nel corso dei secoli, che hanno posseduto e che sono stati posseduti dallo Spirito Santo e che hanno predicato agli altri quello che loro avevano udito ed esperimentato ripetendo da un secolo all’altro:

 

Ravvedetevi…siate battezzati…ricevete il dono dello Spirito Santo…perché a voi, anche a voi, è fatta la promessa.

 

Forse le conclusioni lasciano insoddisfatti più di un lettore; in polemica non si accettano tesi conciliative o ipotesi d’incontro, ma io, pur nel confermare il mio credo, ho desiderato soltanto proporre temi di meditazione per raggiungere uno scopo che può apparire modesto, ma è certamente cristiano, avere sempre più luce nella Scrittura, sempre più chiarezza nei programmi divini.

 

Credo che intorno ad un punto possiamo tutti concordare e cioè quello che ci chiarisce che ogni cristiano deve essere “pieno” di Spirito Santo ed essere pieni di Spirito Santo significa raggiungere sempre un livello di soprannaturalità che non può avere quell’esuberanza carismatica che è necessaria all’edificazione della chiesa.

 

Le “lingue” nel battesimo od il battesimo con l’evidenza delle “lingue” non vuole affermare un principio che è fine a se stesso, come purtroppo pensano oggi molti “neo-carismatici” e non soltanto essi, ma è un’esperienza molto più elevata di una semplice eccitazione o di una superficiale emozione perché è evidenza o manifestazione sensibile di una potenza che qualifica il credente a rendere testimonianza a Colui per il quale sono dati tutti i doni alla chiesa: Gesù Cristo, nostro Signore benedetto in eterno!

 

L'UOMO NEL TEMPO E NELL'ETERNITA'

L’UOMO NEL TEMPO E NELL’ETERNITA’

27 aprile 2000 Studi Biblici R.B.

CAPITOLO 1: – L’UOMO CREATURA DI DIO

 

CAPITOLO 2: – IL CORPO DELL’UOMO

 

CAPITOLO 3: – L’ANIMA DELL’UOMO

 

CAPITOLO 4: – LO SPIRITO DELL’UOMO

 

CAPITOLO 5: – L’UOMO E DIO

 

Introduzione

 

Questo breve studio biblico, come i precedenti, è frutto di un lavoro spontaneo e frettoloso cioè è stato gettato giù, in pochi giorni, per appagare una richiesta giunta da diverse parti.

 

Nonostante però la brevità del tempo, entro il quale è stato ultimato, ha conosciuto una cura particolare e cioè quella di renderlo accessibile e comprensibile a tutti. Forse questa cura lo ha reso “troppo semplice” in alcune espressioni, o “troppo puerile” in alcuni concetti, ma noi crediamo che nell’assieme lo studio se ne sia avvantaggiato a beneficio di una larga categoria di credenti non preparati alla difficile terminologia teologica.

 

Qualche volta è stato necessario esprimere un concetto, una definizione con parole di uso non comune, ma il concetto e la definizione sono stati poi ripetuti con parole facilmente comprensibili.

 

La fretta con la quale è stato compiuto scusa molte delle lacune di questo lavoro; la profondità dell’argomento ne scusa molte altre, ma noi speriamo che nonostante lacune e difetti questo studio possa interessare un numero elevato di credenti e possa anche accendere in essi un desiderio sempre più vivo, sempre più intenso per gli studi biblici.

 

Questo studio ha, soprattutto, uno scopo: esaminare l’uomo nel suo aspetto di “creatura di Dio”, quindi nel suo aspetto più profondo, più importante. Noi speriamo che questo esame possa rappresentare un raggio, sia pur debole, di luce, per una conoscenza più intiera dell’uomo, la più meravigliosa fra le creature di Dio.

 

L’UOMO CREATURA DI DIO

 

Chi è l’uomo? Uno sconosciuto, ha risposto un famoso scrittore straniero. Veramente l’uomo è uno sconosciuto o almeno una creatura misteriosa che ci rivela sempre nuovi aspetti della sua personalità. Noi però non possiamo accontentarci di questa risposta e dobbiamo cercare di dare una risposta più ampia e più precisa alla domanda.

 

Dobbiamo soprattutto cercare la risposta nelle pagine della Bibbia, ma possiamo anche servirci di tutti gli altri mezzi che ci aiutano a comprendere l’uomo.

 

La Bibbia ci dichiara che l’uomo è una creatura formata da Dio con materiale già esistente.

 

Ci dichiara anche che è stato formato all’immagine di Dio e quindi che è la più perfetta fra tutte le creature, ed infine ci dichiara che è l’unica creatura che viva una vita abbondante, anzi una vita totale. Gen.1:26; 2:7,17,20,22 – 1 Cor.11:7.

 

Questa dichiarazione biblica ci dice che l’uomo è stato formato di materia e di spirito, perché Dio fece l’uomo con la polvere della terra, che già esisteva, e poi gli alitò un fiato vitale cioè un soffio di vita. All’uomo è stata data la supremazia del creato perché è stato fatto la più eccelsa delle creature. Tutte le creature di Dio sono perfette perché tutto quello che Iddio ha fatto “è buono”, ma l’uomo è la più perfetta delle creature di Dio.

 

Dobbiamo spiegare questa dichiarazione apparentemente assurda: ogni animale, ogni pianta, ogni cosa che è stata creata da Dio è perfetta rispetto a se stessa; per esempio un cane, come cane è perfetto, una rosa come rosa è perfetta. Tutte queste cose però sono imperfette rispetto a Dio; per esempio una rosa non ha tutta la bellezza di Dio, il cielo non ha tutta la grandezza di Dio, il sole non ha tutto lo splendore di Dio.

 

Quando mettiamo tutte le creature di Dio a confronto con loro stesse troviamo che tutte sono perfette, ma quando le mettiamo a confronto con Dio troviamo che l’uomo è la più perfetta perché è l’unica che è stata fatta all’immagine di Dio.

 

La vita nell’uomo

 

L’uomo, abbiamo anche detto, è l’unica creatura che viva una vita completa. Le creature viventi generalmente vivono la vita vegetativa oppure la vita sensitiva e la vivono soltanto per un periodo di tempo; l’uomo invece vive la vita vegetativa, la vita sensitiva e la vita morale e vive nell’eternità. Quindi la vita dell’uomo è la più abbondante; l’unica veramente completa.

 

Vogliamo spiegare il significato dei termini “vegetativa” “sensitiva” “morale”. La vita vegetativa è quel genere di vita che hanno quasi tutte le piante e alcune specie di animali inferiori e che consiste nella capacità di afferrare e assimilare le sostanze nutritive per vivere, svilupparsi e riprodursi. Prendiamo l’esempio di una pianta che assorbe dal terreno sostanze e umidità e dall’aria quelle particelle chimiche necessarie alla propria respirazione. Essa cresce, si sviluppa, produce il seme, muore e poi, a mezzo de seme, si riproduce.

 

La vita sensitiva invece è quel genere di vita che permette di servirsi dei sensi per afferrare il significato esteriore delle cose. Prendiamo l’esempio di un cane; esso vede, ode, riconosce i sapori, sente le carezze o avverte le percosse e riconosce gli odori. Il cane non soltanto si nutrisce, cresce, si riproduce, ma vive anche a contatto delle realtà fisiche del mondo a mezzo dei suoi sensi cioè dell’odorato, della vista, del palato…

 

La vita morale, infine, è quel genere di vita che permette di servirsi dell’intelletto e dei moti interiori, cioè della coscienza per regolare la propria condotta di fronte all’uomo e di fronte a Dio; di fronte al tempo e di fronte all’eternità. Per questo genere di vita non possiamo prendere esempi all’infuori dell’uomo, perché soltanto questa creatura meravigliosamente formata da Dio, oltre a nutrirsi, svilupparsi, riprodursi e oltre ad avere contatto col mondo fisico a mezzo dei suoi sensi, può fare uso della ragione e della coscienza per vivere una vita che lo eleva sopra del mondo fisico; una vita superiore, una vita piena.

 

L’uomo non è ab-eterno, cioè non è sempre esistito, ma dal giorno che è stato creato. Gli è stata data l’immortalità e perciò anche per questo dobbiamo dire che la vita dell’uomo è l’unica vita totale. Una pianta, un animale, possono vivere il tempo che durano, ma l’uomo vive il tempo che dura nel mondo e vive fuori del mondo nell’eternità.

 

Quindi l’insegnamento biblico ci dice chiaramente la medesima cosa che gli studiosi di teologia esprimono in maniera più complicata quando ci dicono che “l’uomo è un essere razionale composto di materia fisica e materia spirituale; che è composto cioè di organismo fisico che è, a sua volta, un composto chimico fornito di apparati e sistemi e una psiche spirituale”.

 

Tutte queste parole servono semplicemente per dirci che l’uomo è un essere materiale e spirituale e che possiede una mente capace di ragionare e quindi capace di controllare e dirigere la propria vita fisica e la propria vita interiore.

 

La teologia e la Bibbia sono perciò d’accordo nel dirci che l’uomo è la più perfetta delle creature e che è l’unica che ha in se stessa l’immagine di Dio.

 

L’uomo nel pensiero materialista

 

Chi non è d’accordo con queste dichiarazioni è il “materialismo”. Il materialismo è quel pensiero scientifico che cerca di negare la vita spirituale e che perciò vuole affermare che tutto è materia e soltanto materia.

 

Il materialismo dice che l’uomo non è un essere spirituale e materiale, ma soltanto materiale. Il materialismo nega l’esistenza di Dio e quindi nega anche che l’uomo possa avere o possa essere l’immagine di Dio.

 

I materialisti spiegano la superiorità dell’uomo sulle altre creature con la teoria dell’evoluzione. Essi dicono che l’uomo in origine non era come oggi; era semplicemente una scimmia senza favella cioè senza parola e quindi con un intelletto limitato, simile a quello delle scimmie che noi conosciamo.

 

Questa scimmia si sarebbe venuta a trovare in circostanze particolari di vita che l’avrebbero obbligata a fare uso dei suoni della propria gola.

 

Forse per difendersi dalle bestie feroci avrebbe imparato a lanciare un grido speciale che fosse servito a chiamare in aiuto le altre scimmie; forse per unirsi alle proprie compagne per raggiungere i torrenti, avrebbe imparato un altro grido che fosse stato subito riconosciuto come un segnale; forse per avvertire che aveva trovato cibo per tutti avrebbe imparato ed usato un altro grido…

 

Questi gridi sarebbero state le prime parole che sono poi aumentate e che si sono perfezionate. Con l’uso delle parole sarebbe nato e si sarebbe sviluppato anche l’uso del ragionamento e con l’uso del ragionamento sarebbe iniziato il perfezionamento della scimmia, che ha incominciato a lasciare la vita bestiale per cercare una vita più elevata che lentamente e lentamente l’ha condotta ad un genere di vita superiore.

 

Se domandate ai materialisti: – Ma questa scimmia da dove è venuta? Essi vi diranno: – Anche la scimmia è venuta da una specie inferiore ad essa e questa specie inferiore è venuta a sa volta da una specie inferiore fino a che si arriva all’organismo composto di una sola cellula invisibile. L’organismo di una sola cellula è venuto da processo biologico primitivo e poi…non sappiamo nulla.

 

Insomma i materialisti non possono spiegare l’origine della vita, però vogliono affermare che da quando la vita è incominciata si è continuamente perfezionata per un processo di evoluzione materiale. Così da un piccolo insetto, lentamente, lentamente è venuto un animale imperfetto; da quell’animale imperfetto, lentamente è venuto un animale più perfetto; da quell’animale più perfetto è venuta la scimmia e dalla scimmia, attraverso decine e centinaia di millenni, è venuto l’uomo.

 

Noi non possiamo accettare questo ragionamento non soltanto perché è in contrasto con la Bibbia, ma anche perché è incompleto e perché è contro la logica e l’esperienza. I materialisti, per pretendere di essere accettati, dovrebbero prima spiegarci l’origine della vita e poi dovrebbero anche dirci perché la vita degli animali è sempre la stessa attraverso i millenni e quella dell’uomo è in continuo progresso e in costante movimento.

 

Gli animali si adattano, ma non si evolvono; l’uomo si evolve e non si adatta e questo perché gli animali non hanno una vita razionale cioè pensante ed una vita morale mentre l’uomo ha l’una e l’altra.

 

I gatti di seimila anni fa vivevano come i gatti di oggi; le rondini di allora facevano gli stessi nidi che costruiscono le rondini di oggi, ed i lupi e le volpi di millenni addietro avevano precisamente le medesime tane. Se questi animali, oltre agli istinti, avessero avuta la ragione, avrebbero imparato, come l’uomo, a perfezionarsi con la propria volontà, invece sono rimasti nella stessa condizione del passato.

 

E’ vero, i gatti sono divenuti domestici, le galline hanno perduta la capacità di volare, i cani si sono sottomessi all’uomo, i cavalli, le vacche sono entrati a servizio della società…, ma questo non è evoluzione, non è progresso, ma è adattamento a nuove condizioni di vita che sono state imposte.

 

Quindi l’uomo non viene da una specie inferiore, perché fra gli animali e l’uomo c’è una separazione che sempre rimane e mai può essere colmata; una separazione che dimostra che l’uomo è la più perfetta creatura di Dio perché è l’unica che porta la Sua immagine, l’unica che ha la ragione, l’unica che ha una personalità materiale e spirituale; l’unica che è immortale.

 

Il nome dell’uomo

 

Per approfondire ancora di più la questione, forse è opportuno servirci di un’altra dichiarazione della Bibbia e cioè quella che viene dallo studio dei nomi dell’uomo.

 

Nella Bibbia generalmente, il nome indica, ed illustra la personalità dell’individuo e quindi il nome dell’uomo può aiutarci a comprendere la personalità dell’uomo; può aiutarci cioè a conoscere più chiaramente chi è l’uomo. Nella Bibbia troviamo quattro nomi principali relativi all’uomo; essi sono Adamo, Ish, Gheber e Anthropos.

 

I primi tre sono di origine ebraica e quindi ci vengono dal Vecchio Testamento e l’ultimo è di origine greca e perciò si trova nel Nuovo Testamento.

 

Qual è il significato di questi nomi? Che ci dicono essi dell’uomo?

 

Andiamo per ordine: Adamo ha un’origine molto incerta e molto discussa e perciò secondo alcuni studiosi avrebbe un significato e secondo altri un significato diverso.

 

Alcuni hanno detto che Adamo deriva da una parola che vuol dire “rosso” e perciò Adamo significherebbe il rosso. Altri invece hanno sostenuto che questo nome è nato da una parola che potrebbe farlo interpretare “nato di terra“. Altri hanno detto che potrebbe essere interpretato, per la sua origine, “fare o produrre“; ed infine altri studiosi, non meno valenti dei precedenti, hanno sostenuto che l’origine del nome Adamo può farlo interpretare “famiglia o stirpe” o piuttosto “umanità” cioè uomo in senso collettivo.

 

Da queste molteplici interpretazioni riesce difficile dire che cosa esprima il nome Adamo e dobbiamo perciò seguire ed ascoltare le varie idee degli studiosi. Coloro che dicono che Adamo può essere interpretato “il rosso” sostengono che probabilmente questo nome indica il colore della terra usata da Dio per formare l’uomo o indica il colore della pelle del primo uomo.

 

Coloro che danno la seconda interpretazione sostengono che il nome esprime semplicemente la natura e l’origine dell’uomo che è realmente il “nato dalla terra”. Vedi Eccl.6:10;12:9.

 

Coloro che difendono la terza interpretazione sostengono che Adamo vuol dire “produzione di Dio od opera di Dio“. Gli ultimi infine dichiarano che Adamo vuol dire semplicemente “capo di una stirpe” oppure “umanità“.

 

Noi non accettiamo completamente nessuna di queste interpretazioni, ma non le rigettiamo, perché tutte ci dicono qualche cosa intorno all’uomo.

 

Adamo è il nome dell’uomo che è usato anche nel Nuovo Testamento per indicare il genere umano. Quando nel N.T. troviamo questo nome sappiamo che esso esprime umanità, origine di una stirpe ed infatti troviamo menzionato vicino all’Adamo dell’Eden, cioè al “primo Adamo” anche l’Adamo del Golgota, cioè il “secondo od ultimo Adamo“: Gesù Cristo. Dall’uno e dall’altro sono nate le stirpi dell’umanità. I due Adami hanno generato le due grandi famiglie dell’intera umanità.

 

Il secondo nome dell’uomo è Ish,ma questo più che un nome può essere considerato un aggettivo perché Ish vuol dire semplicemente maschio come Ishak vuol dire femmina; il genere umano perciò si distingue in Ish e Ishak come anche il mondo animale (e in certi casi anche il mondo vegetale) si divide in ish e ishak.

 

Questo nome perciò non è usato soltanto per l’uomo e per la donna, ma anche per il maschio e per la femmina dell’animale.

 

Comunque è interessante osservare che Iddio ha chiamato l’uomo maschio e la donna femmina perché questo ci dice che l’uomo ha una vita sessuale cioè una “vita di fusione” (i due diverranno una medesima carne) la quale si realizza mediante l’attrazione di due organismi che si completano e di due affetti che s’incontrano.

 

L’uomo quindi porta anche in questo nome il segno dell’opera di Dio e del piano di Dio che ha voluto suggellare nella sua creatura la legge dell’amore e della comunione.

 

Quando noi facciamo un’opera, ci serviamo sempre dei modelli che possediamo; per esempio se eseguiamo una pittura, noi raffiguriamo alberi, monti, cieli…, cioè tutte cose che vediamo, ma Iddio nel creare l’uomo ha fatto una cosa assolutamente nuova cioè non si è servitp di nessun modello e lo ha fatto maschio e femmina, ossia completamente differente dagli angeli che non hanno sesso. (Luca 20:35-36).

 

Quindi noi crediamo che Ish voglia dire “colui nel quale Dio ha messo la legge dell’amore e della comunione e al quale ha insegnato la perfetta unione spirituale col cielo”. Non dimentichiamoci infatti che l’unione dell’uomo con la donna rappresenta un’immagine, un’anticipazione dell’unione del credente con Dio, della chiesa con Cristo.

 

Veniamo ora al terzo nome dell’uomo: Gheber.

 

Anche Gheber è un aggettivo e vuol dire “forte”. E’ un aggettivo che non è dato a tutto il genere umano, ma soltanto al maschio che è stato costituito per disegno divino “il forte”, cioè il dominatore del creato ed il conduttore di quella parte del genere umano che è definito “sesso debole” (I Pietro 3:7).

 

Questo nome ci dice che l’uomo è “il forte” anche di fronte ai più forti perché anche i leoni o gli elefanti sono dominati dall’uomo, e ci dice altresì che anche sotto questo aspetto Iddio ha messo in effetto un piano di saggezza infinita. Egli ha diviso il genere umano in sesso forte e in sesso debole affinché, nell’equilibrio di questi due opposti, si potesse raggiungere l’armonia.

 

Oggi gli evoluzionisti negano che la donna sia nata “sesso debole” e l’uomo “sesso forte”. Essi sostengono che la donna si è adattata ad essere sesso debole in conseguenza soprattutto della sua missione materna che la obbliga ad una vita di difesa nell’intimità della casa. La Bibbia invece ci dichiara che sin da principio Iddio ha fatto l’uomo maschio e femmina perché l’uno fosse forte e l’altra debole, così come nell’unione spirituale fra Dio e l’uomo, Iddio sia il forte e l’uomo il debole, Iddio il conduttore e l’uomo il subordinato, il sottomesso.

 

Veniamo ora all’ultimo dei nomi dell’uomo, quello del Nuovo Testamento “Anthropos”. Questo nome viene tradotto comunemente uomo, ma la sua origine permette un’interpretazione più chiara: Anthropos si è formato con l’unione di diverse particelle linguistiche che potrebbero essere tradotte “Colui che guarda in alto“.

 

E’ un nome meraviglioso che ci dice chiaramente chi è l’uomo: colui che guarda al cielo, che parla con il cielo, che ha comunione con il cielo.

 

Sembra quasi che il Nuovo Testamento ci dia una luce più chiara, una rivelazione più precisa dell’uomo; egli non è soltanto il nato di terra, il forte, ma è soprattutto colui che ha intimità con Dio.

 

Per chiudere questo argomento vogliamo ricordare che i latini, infine hanno chiamato l’uomo homo, dalla radice linguistica humus che vuol dire terra ed anche questa definizione torna a ricordarci della debolezza e della corruzione della natura umana.

 

La Bibbia, adunque, afferma che l’uomo è l’immagine di Dio ed è una creatura razionale composta di spirito e materia, che può vivere una vita piena nell’immortalità. Egli che è stato formato dalla polvere nel suo involucro esterno, ha ricevuto un soffio vitale da Dio e può vivere guardando a Dio e anelando Dio.

 

Egli è il dominatore del creato, ed è, fra tutte le creature di Dio, quella che possiede i privilegi più elevati. Naturalmente è anche quella che ha le più grandi responsabilità di fronte a se stessa, di fronte alla creazione e di fronte a Dio, perché è l’unica creatura capace di vivere una vita razionale e morale.

 

Gli evoluzionisti negano anche quest’ultima affermazione e sostengono che anche gli animali posseggono il senso morale; si servono, per dimostrarlo, dell’esempio del gatto che ruba in cucina e si nasconde o del cane che rovina un oggetto di casa e fugge spaventato. Noi accettiamo il principio che anche gli animali possano andare oltre gli istinti e sentirne la reazione, ed esserne anche colpevoli di fronte ad una legge rudimentale che riguarda loro, ma escludiamo che questo fenomeno naturale possa essere definito vita morale ed intellettuale e quindi neghiamo l’eventualità che la morale dell’uomo sia il perfezionamento delle reazioni della bestia. L’uomo è la creatura dei privilegi e la creatura della responsabilità o almeno dei privilegi e delle responsabilità in misura totale.

 

Gli animali, come la creazione, possono portare certe conseguenze (vedi Gen.9:5; Rom.8:22), ma soltanto l’uomo è pienamente responsabile di fronte a Dio (vedi II Sam.24:17; Rom.8:17; Salmo 8:4-8) perché ha ricevuto i più grandi privilegi da Dio. (vedi Gen.1:28).

 

IL CORPO DELL’UOMO

 

Nel capitolo precedente abbiamo detto che l’uomo è una creatura razionale, cioè che ragiona, composta di materia e spirito; ora vogliamo vedere più chiaramente che cosa vuol dire “composta di materia e spirito”. La Bibbia ci dice che l’uomo è anima, corpo e spirito I Tess.5:23 e sembra quasi avvertirci che è difficile scoprire tutti i segreti del corpo e comprendere chiaramente la distinzione fra l’anima e lo spirito. Ebrei 4:12. E’ necessario che questi due riferimenti biblici siano letti e considerati perché in essi non soltanto è affermata chiaramente la trinità dell’uomo, ma è anche detto della difficoltà di questo problema.

 

Veramente il problema è molto profondo perché se è chiara la differenza fra la materia e lo spirito, cioè fra il corpo dell’uomo che è la materia e la parte spirituale dell’uomo, sembra che non sia altrettanto chiara la differenza o la distinzione fra l’anima e lo spirito che rappresentano appunto la parte spirituale. Per questa ragione il problema è stato risolto nelle più diverse maniere, e gli uni hanno detto che c’è soltanto il corpo ed un’anima spirituale, ed altri hanno detto che c’è soltanto il corpo e lo spirito, che quando sono uniti hanno la vita e perciò l’anima è soltanto la vita. I materialisti poi negano l’anima e lo spirito e dicono che c’è soltanto il corpo.

 

Il problema è veramente difficile e noi non pensiamo di risolverlo facilmente e completamente, ma vogliamo almeno affrontarlo accettando come basi i termini posti dalla Bibbia. Per noi quindi l’uomo è una trinità composta di corpo, anima e spirito; oltre ai passi citati troviamo l’esistenza del corpo, dell’anima e dello spirito e questi termini si trovano separati e distinti in quasi ogni pagina del libro di Dio.

 

L’esame accurato di queste tre realtà che compongono e formano l’uomo potrà aiutarci a comprendere meglio il problema e potrà aiutarci ad andare verso la soluzione.

 

Il corpo come composto

 

Esaminiamo immediatamente l’aspetto materiale dell’uomo, cioè esaminiamo il suo corpo. Il corpo dell’uomo è un composto chimico, cioè è l’unione di diverse sostanze chimiche che coesistono assieme. La parte più abbondante del corpo è l’acqua che nel neonato rappresenta il 70% del suo peso e nel vecchio il 60%. Immaginatevi un bambino appena nato dal peso di 4 kg, ebbene, egli ha un corpo composto per kg 2800 di acqua. Immaginatevi un vecchio dal peso di kg 70, 42 kg del suo corpo sono di acqua.

 

Anche l’acqua è un composto chimico che si può dividere in idrogeno ed ossigeno e perciò il corpo umano è composto di queste materie chimiche alle quali si aggiungono carbone, ferro, fosforo, grassi, ecc. Tutte queste sostanze chimiche sono legate strettamente assieme e danno vita al corpo o vivono nel corpo; quando il corpo cessa la propria funzione queste sostanze chimiche si separano e rientrano tutte nella natura. L’uomo cioè ritorna alla terra e il corpo si decompone; prima era composto e poi si decompone o, come diciamo comunemente, si corrompe.

 

Tutte queste sostanze chimiche però non formano il corpo in un modo confuso e disordinato, anzi l’unione avviene in una maniera meravigliosamente ordinata per costituire un organismo.

 

L’organismo può essere assomigliato ad una perfetta fabbrica moderna ove tutto il lavoro si svolge in modo armonico e sincronizzato, cioè in una unione precisa di tutte le macchine e di tutti gli uomini che concorrono al lavoro.

 

L’organismo è formato di apparati e sistemi; per esempio, l’apparato digerente, l’apparato respiratorio, il sistema nervoso, il sistema cardiovascolare…Tutti agiscono in armonia e tutti contribuiscono alla vita del corpo. Il sistema nervoso rappresenta la direzione di questa grande fabbrica e da esso partono tutti gli ordini e ad esso arrivano tutte le impressioni.

 

La mano che si muove, l’occhio che si chiude, la gamba che si distende, tutto, tutto ubbidisce al sistema nervoso che ha il proprio inizio, potremmo dire la propria sede o la propria centrale, nel cervello. E così l’immagine che appare davanti ai nostri occhi, il suono che viene raccolto dal nostro orecchio o il sapore gustato dal nostro palato…, tutto viene raccolto dal sistema nervoso e viene condotto alla propria sede cioè al cervello.

 

La vita del corpo

 

Il corpo, quindi, non è soltanto pelle, tessuti, muscoli, ossa, ma è sistemi,apparati in continua attività, in continuo movimento. L’uomo col suo corpo può vivere naturalmente una vita istintiva ed una vita sensitiva, perché questo meraviglioso organismo è dotato di cinque istinti e di cinque sensi.

 

I sensi che si trovano nel corpo dell’uomo sono vista, per vedere le immagini; udito, per udire i suoni; palato per gustare i sapori; olfatto per odorare e tatto per avvertire le qualità esterne degli oggetti. Quattro dei cinque sensi sono localizzati in un organo del corpo: la vista nell’occhio, l’udito nell’orecchio, il palato nella bocca, l’olfatto nel naso. Il quinto invece è diffuso in tutto il corpo, ma è particolarmente sensibile nelle polpastrelle delle dita; il corpo ha tatto in qualsiasi parte, ma in un modo particolare sulla punta interna delle dita.

 

Con questi sensi l’uomo ha contatto con il mondo; essi sono come finestre apertesul mondo fisico nel quale l’uomo vive con il suo corpo.

 

Gli istinti invece fanno partecipare attivamente e totalmente alla vita fisica. Come abbiamo già detto, anche gli istinti sono cinque e cioè: di nutrizione, di conservazione, di riproduzione, di acquisto e di dominio.

 

Gli istinti, come i sensi, fanno parte dell’organismo, cioè sono una produzione di quella meravigliosa fabbrica che è il corpo umano. Il bambino che viene alla luce è capace, sin dalle prime ore della sua vita, a poppare magistralmente; nessuno gli ha impartito lezioni, ma egli sa provvedere alla propria nutrizione perché possiede un istinto che lo muove, che lo fa agire.

 

Se un individuo qualsiasi inciampa e cade, prima ancora che riesca a rendersi conto di quel che sta avvenendo, mette le mani avanti per difendere le parti più delicate del corpo. Se un oggetto viene lanciato violentemente verso il viso di una persona, questa, prima di rendersi conto della circostanza, chiude gli occhi. Che cosa agisce quando vengono messe le mani avanti e vengono chiusi rapidamente gli occhi? L’istinto di conservazione.

 

Quindi l’istinto di nutrizione guida l’individuo verso la ricerca dell’alimento indispensabile al proprio organismo; l’istinto di conservazione compie la difesa dell’organismo; l’istinto di riproduzione conduce alla continuazione della specie mediante la prolificazione; l’istinto di acquisto produce il lavoro, ed infine l’istinto di dominio guida l’uomo ad esercitare il proprio compito di signore e dominatore della creazione.

 

Come abbiamo notato in un altro scritto, gli istinti rappresentano una guida naturale perfetta. L’uomo nell’Eden viveva una vita istintiva nei suoi rapporti col mondo fisico e in quella vita rispettava l’armonia posta da Dio nella natura. Il peccato ha prodotto l’alterazione degli istinti, o piuttosto l’alterazione degli istinti ha prodotto il peccato che è sempre azione contro gli istinti o , come si dice comunemente, è azione generata da istinti bassi.

 

L’alterazione dell’istinto di nutrizione produce la gola, le ghiottonerie; l’alterazione dell’istinto di conservazione produce le risse, la guerra; l’alterazione dell’istinto di riproduzione produce l’adulterio, la fornicazione, l’onanesimo; l’alterazione dell’istinto di acquisto produce l’avarizia, l’egoismo, e l’alterazione dell’istinto di dominio produce l’orgoglio, la superbia.

 

Il corpo in relazione all’anima

 

Il corpo adunque ha in se stesso una sensibilità perfetta, una legge naturale armonica, una vita organica equilibrata, ma ha questa vita soltanto quando ospita l’elemento spirituale che è veramente l’elemento vita. Un corpo privo dell’elemento spirituale non ha sensi e non ha istinti.

 

Osserviamo un cadavere: esso è esanime, accomodato sopra il cataletto funebre, ha, organicamente, tutto quello che aveva mentre, pochi minuti prima, era in vita. La sua pelle, i suoi tessuti, i suoi muscoli, le sue ossa, i suoi apparati, i suoi sistemi: tutto è lì, precisamente come prima, nella stessa quantità, nello stesso ordine. Ma esso non si muove; è inerte, insensibile. Possiamo vedere chiaramente che qualche cosa manca; qualche cosa non c’è più e quel che manca ha spento i sensi e gli istinti, cioè ha spento la vita.

 

Quindi i sensi dell’uomo e gli istinti naturali dell’uomo abitano nel corpo, ma vengono messi in azione soltanto a mezzo dell’elemento spirituale; il corpo perciò ci viene presentato, da questa logica conclusione, come lo strumento dell’anima.

 

L’anima usa il corpo, muove il corpo, si serve del corpo. Naturalmente l’anima usa e può usare soltanto le parti sane dl corpo, cioè quelle che ubbidiscono alle leggi dell’armonia naturale. Prendiamo infatti l’esempio di un individuo a cui sia stato amputato il braccio destro; egli non ha più una parte del suo corpo e perciò quella parte non può più essere usata dall’anima. Prendiamo ora l’esempio di un individuo che abbia persa la ragione; l’anima non si può servire di un corpo nel quale è stata devastata la direzione e perciò in quel corpo rimane l’elemento spirituale, come elemento vita, ma non come elemento azione. L’anima in quel corpo pensiamo che non abbia la responsabilità delle azioni del corpo stesso.

 

Il corpo, ripetiamo, è lo strumento dell’anima, l’esecutivo dell’anima, cioè colui che eseguisce la volontà dell’anima. Infatti l’apostolo Paolo quando parla dell’uomo parla non del corpo, ma di Colui che sta dentro al corpo. (vedi 2 Cor.5:9-10).

 

La Scrittura assomiglia il corpo ad una tenda, ad un tempio, ad un vaso, cioè lo assomiglia sempre ad “un contenente” ossia a qualche cosa che accoglie dentro di sé il “contenuto” (vedi 1 Corinti 6:19; 1 Corinti 5:1; 1 Timoteo 2:21). In altre parole la Bibbia ci dichiara che il corpo è un astuccio, che accoglie l’uomo e con l’uomo le benedizioni che l’uomo riceve dal cielo o il male che riceve dall’inferno.

 

Pensiamo brevemente alle definizioni della Bibbia: una tenda, un tempio, un vaso. Una tenda ci suggerisce l’idea di un viandante che compie un pellegrinaggio; egli per non riparare allo scoperto, pianta la sua tenda e trascorre in essa le sue ore. Ma un giorno, finalmente, raggiunge la sua città ed allora arrotola definitivamente i teli della sua tenda e prende dimora stabile nella sua casa.

 

Un tempio invece ci parla di un luogo necessario al culto, all’adorazione; un luogo aperto per accogliere la presenza di Dio. Anche per questo verrà il giorno finale e cioè quando Iddio manifesterà la Sua presenza non più in un tempio di terra, di creta, ma nella gloria del cielo.

 

Un vaso infine ci dice di un recipiente preparato, secondo l’uso orientale, per essere colmato di fiori, o di oli profumati, o di gemme preziose. Anche del vaso però possiamo vedere la fine “quando sarà fiaccato sopra la cisterna” (Eccl.12:8), mentre delle gemme possiamo contemplare il destino eterno nei tesori del Signore.

 

Il corpo è un contenente, l’essenza spirituale è il contenuto, e, poiché i credenti partecipano le promesse divine nella loro anima, il corpo diviene, nel cristiano, il tempio della presenza di Dio, il vaso ripieno della benedizione celeste, traboccante della gloria della grazia celeste.

 

La nascita del corpo

 

Come nasce e da chi nasce il corpo dell’uomo?

 

Se osserviamo attentamente la Scrittura possiamo notare che il corpo è definito frequentemente “la carne” ed è definito in questo modo per suggerire l’idea della discendenza umana, della natura umana e della debolezza umana.

 

Il corpo quindi, cioè la carne, discende dall’uomo, ha la natura dell’uomo e trascina le debolezze dell’uomo, perciò la carne viene dall’uomo, nasce dall’uomo.

 

Ogni cosa che ha vita è composta di due parti e cioè dell’involucro materiale, fisico, visibile, e dall’interno che è l’elemento vita, l’elemento invisibile. Il corpo dell’uomo è l’involucro esterno e questo involucro nasce dagli involucri che sono stati prima di lui e che si sono riprodotti.

 

Come la pianta offre il seme alla terra per riprodurre se stessa, così l’uomo offre il seme alla matrice per riprodurre se stesso. Come la pianta può soltanto dare l’involucro esterno e deve aspettare che Dio metta la vita nel seme, così l’uomo può offrire soltanto “la carne” e deve sottomettersi all’intervento di Dio per l’immissione dell’anima. Come i sensi e gli istinti esistono soltanto con la presenza dell’anima, così la fecondazione e la nascita avvengono soltanto con la presenza dell’elemento vita. (vedi I Cor.3:6, 15:37-38).

 

Quindi il corpo nasce per un processo naturale di fecondazione del seme umano che riproduce l’uomo; l’uomo carnale nasce dall’uomo carnale; l’involucro nasce dall’involucro.

 

Il corpo con la nascita è legato da una relazione col corpo che lo ha generato: ha la stessa natura, la medesima debolezza.

 

Un nero produce un nero, un giallo riproduce un giallo, un nano riproduce un nano, un gigante riproduce un gigante. Perciò c’è sempre una relazione d’involucro fra colui che genera e colui che è generato. A causa di questa relazione tutti i corpi discendono da Adamo e in Adamo e per Adamo tutti i corpi hanno perduta quella perfezione, quella salute e quella potenza che esistevano prima della caduta.

 

Gli uomini nascono simili a figli di tubercolosi; quando nascono non hanno la tubercolosi nell’interno, non hanno i microbi nel sangue o nei polmoni, però hanno la tubercolosi all’esterno perché nascono deboli, gracili, poveri alla resistenza. La debolezza e l’ambiente li rendono inevitabilmente e in poco tempo tubercolosi perché l’involucro era pronto per accogliere la tubercolosi.

 

Il corpo, ripetiamo, nasce per un processo di fecondazione naturale: l’ovulo materno viene fecondato dal seme paterno e la carne riproduce la carne stabilendo, secondo la carne, un legame d’unione. Iddio interviene in quest’opera immettendo l’anima, cioè l’elemento spirituale, l’elemento spirituale che, quindi, come vedremo più chiaramente in seguito, non viene dall’uomo, ma da Dio e che perciò non ha relazioni dirette con l’uomo, ma ha soltanto relazione con Dio.

 

 

 

L’ANIMA DELL’UOMO

 

Eccoci giunti alla parte centrale e fondamentale del nostro studio, quella che affronta l’indagine relativa all’anima.

 

L’uomo, abbiamo già detto, è una trinità e in questa trinità il corpo rappresenta soltanto l’involucro esterno. Nel corpo c’è l’anima e lo spirito, cioè la sostanza spirituale dell’uomo.

 

Il nome dell’anima

 

Incominciamo con l’esaminare il problema dell’anima con l’aiuto che ci viene dalla Scrittura. Nella Bibbia si parla dell’anima continuamente; il Vecchio Testamento ripete questa parola decine e decine di volte, dal libro della Genesi in poi e il Nuovo Testamento è ugualmente ricco di questa parola.

 

Nel Vecchio Testamento originale, cioè nei manoscritti ebraici, l’anima è indicata col nome “néphes”.

 

Nel Nuovo Testamento, che, come sappiamo è stato scritto nella lingua greca, l’anima è indicata col termine “psiche“.

 

Cerchiamo di penetrare nel significato di queste parole per poter comprendere meglio il problema dell’anima.

 

Néphes può essere tradotto “respiro che passa per la gola” cioè respiro che dà vita. Se noi osserviamo un morente, notiamo che i movimenti della sua gola si fanno sempre più deboli e sempre più rari, fino a tanto che si arrestano, cioè fino a tanto che non passa più aria attraverso la gola.

 

Néphes quindi indica la vita che sta nell’uomo; la vita invisibile che viene assomigliata all’aria.

 

Psiche invece può essere tradotto “io” cioè essere sensibile e razionale.

 

Sembra che anche su questo soggetto, dal Vecchio Testamento al Nuovo Testamento, la rivelazione si sia allargata e la luce si sia diffusa. L’anima è presentata soltanto come un soffio di vita nel Vecchio Testamento e diventa un “ego”, cioè un “io”, nel Nuovo Testamento.

 

Questa constatazione è molto importante perché ci dimostra che lo Spirito di Dio ha voluto dirci qualche cosa di più profondo intorno all’anima. Se Iddio non avesse voluto darci questa rivelazione, invece della parola psiche, che vuol dire “io”, avrebbe fatta usare una parola simile alla parola usata nel Vecchio Testamento, cioè alla parola néphes. Nella lingua greca infatti c’è anche la parola “ànemos” che può essere tradotta anima e che vuol dire “soffio, vento“.

 

Queste osservazioni linguistiche possono essere considerate da alcuni ardite o, addirittura, puerili, ma per noi non è tanto importante far trionfare tutta l’osservazione quanto è importante sottolineare la conclusione che è semplicemente questa: i due termini per designare l’anima, cioè quello del Vecchio Testamento e quello del Nuovo Testamento, non dicono la medesima cosa ed appare chiaro che nel N.T. il concetto dell’anima è stato più chiaramente e più profondamente precisato.

 

Néphes ed ànemos sono simili, mentre néphes e psiche sono differenti. Perché Dio ha fatto usare nel Vecchio Testamento la parola néphes che vuol dire “soffio…” e non ha fatto usare nel Nuovo Testamento la parola ànemos che vuol dire pure “soffio”, ma anzi, al posto di questa, ha fatto usare la parola psiche che vuol dire “io sensibile e razionale”?

 

Certamente per farci comprendere chiaramente che l’anima non è un principio di vita “senza ragione“, ma è una persona razionale; è, come dicono i teologi, il “principio vitale staticamente ed intrinsecamente considerato fino all’individualizzazione; sede delle passioni e dei moti concupiscibili”.

 

Definizione teologica dell’anima

 

Questa definizione è per i teologi e perciò è espressa in maniera complicata, ma non è difficile chiarirla sostituendo alcune parole con altre più semplici. Possiamo quindi dire che i teologi affermano: – “L’anima è la vita, perché ha la vita ferma in sé stessa, fino al punto che l’anima è un io, una persona. Nell’uomo l’anima rappresenta l’albergo delle passioni, dei desideri, delle concupiscenze e dei sentimenti”.

 

Naturalmente non tutti i teologi dicono questo, ma soltanto quelli che riconoscono l’esistenza dell’anima come una realtà separata dal corpo ed esistente, quindi indipendentemente dal corpo.

 

Vogliamo anche far notare che quando diciamo “l’anima è la sede delle passioni e dei sentimenti”, noi non diciamo che cos’è l’anima, ma diciamo semplicemente che cosa alberga nell’anima o diciamo qual è l’azione dell’anima. Infatti anche quando diciamo che il corpo è la sede dei sensi e degli istinti noi non diciamo che cos’è il corpo, ma dichiariamo che cosa c’è nel corpo.

 

Perciò il punto fondamentale della questione è risolto con l’affermazione che “l’anima è un’entità in sé stessa perché possiede una propria individualità”. Risolta questa questione possiamo anche accettare una diversa definizione teologica che ci aiuta a considerare il problema da un altro punto di vista. Ecco la definizione: -”L’anima è una sostanza spirituale che insieme col corpo costituisce l’uomo“.

 

Questa definizione teologica afferma che l’uomo è un composto di sostanza fisica e spirituale; l’unione di queste sostanze forma la personalità umana.

 

Noi abbiamo accettato questo concetto sin dal principio di questo studio, però abbiamo precisato che la sostanza spirituale dell’uomo è rappresentata dall’anima e dallo spirito. Ora però è giunto il momento di dire che abbiamo accettato il concetto che l’uomo è un composto di corpo, anima e spirito, perché parliamo dell’uomo che vive; dell’uomo che vive nel mondo, nello spazio, nel tempo. Parliamo cioè dell’uomo che vive la sua vita, per un certo numero di anni, su questa terra di polvere, anzi di fango.

 

Immaginiamoci, per breve tempo, di parlare dell’uomo fuori del mondo e fuori della vita; di parlare cioè dell’uomo nell’eternità…Noi non diciamo più che l’uomo è un composto di sostanza chimica e di sostanza spirituale, perché le realtà eterne sono soltanto spirituali; noi diciamo che l’uomo è una personalità spirituale e parlando dell’anima diciamo che l’anima è l’uomo”. (vedi Genesi 2:7).

 

Abbiamo fatto questo piccolo giro di parole non per allontanarci dal soggetto, ma per approfondirci maggiormente in esso. Continuiamo a parlare dell’anima per dimostrare che realmente in questa vita, nel tempo, nel mondo, essa rappresenta la sostanza spirituale che unita al corpo forma l’uomo, ma fuori di questa vita, nell’eternità, l’anima è l’uomo. Il corpo è soltanto l’astuccio dell’anima, cioè l’astuccio o la tenda dell’uomo; quando l’astuccio sarà posto nella terra, sarà abbandonato alla corruzione, l’uomo continuerà ad essere perché l’anima, che è essenza spirituale, quindi essenza incorruttibile, continuerà a vivere.

 

L’anima nella definizione della Bibbia

 

E’ vero perciò che l’anima è la vita, perché l’anima è l’uomo e perciò la ragione; i sentimenti, i desideri si trovano nell’uomo vivente. Se leggiamo anche pochi fra i molti passi della Bibbia che illustrano l’azione dell’anima, noi vediamo chiaramente che dall’anima sorgono i sentimenti, i pensieri, cioè vediamo chiaramente, come già detto, che l’anima è l’uomo e che l’uomo, di fronte a Dio, è semplicemente “un’anima” (vedi I Sam.18:1; Salmo 42:1-2; Ebrei 10:39; I Pietro 2:11).

 

La Bibbia è molto precisa nel dichiararci che l’anima è un’entità separata dal corpo e nel dirci anche, ripetiamo, che è la sola entità che davanti a Dio rappresenta l’uomo. L’anima è quella che accetta o che respinge Dio; l’anima è quella che decide di operare il bene o di operare il male. Perciò l’anima, e l’anima soltanto, ha una responsabilità di fronte a Dio. (vedi Ebrei 4:12; Matteo 10:28; Ezech.18:4; II Cor.5:10).

 

Per concludere questa prima parte del soggetto diciamo più chiaramente: – L’anima è l’uomo. L’anima è una persona che rappresenta, in modo preciso, la personalità dell’uomo. Nel mondo l’anima vive a mezzo dell’unione con due altri elementi chiamati corpo e spirito. Questi due elementi non hanno una personalità propria, come l’anima, ma l’acquistano nell’unione con l’anima.

 

L’anima in relazione al corpo

 

Con un esempio semplice possiamo spiegare il significato di quest’ultima dichiarazione. Il pane che l’uomo mangia non è l’uomo, ma è un alimento che si unisce all’uomo. Quando però l’uomo lo mangia e lo assimila il pane entra nell’uomo e si confonde con l’uomo e si confonde con la personalità dell’uomo; diventa sangue, nervi, ossa nell’uomo, acquista cioè una personalità nella personalità dell’uomo.

 

Il corpo, rispetto all’anima, ha una posizione quasi uguale a quella del pane rispetto all’uomo. Tutte le parti chimiche che compongono un corpo non hanno una personalità umana, ma esse si uniscono all’anima, si confondono con l’anima e acquistano una personalità dall’anima.

 

L’esempio riguarda soltanto il corpo, ma nel capitolo successivo chiariremo in modo più prolungato le relazioni anima-spirito.

 

Vogliamo anche aggiungere che il corpo e lo spirito sono essenze che possono modificarsi sostanzialmente nell’uomo, mentre l’anima è essenza che può modificare soltanto idealmente. Per essere più chiari precisiamo: il corpo umano si modifica continuamente; dalla nascita alla morte, attraverso l’infanzia, la fanciullezza, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia è una continua trasformazione di cellule, di tessuti, di caratteri esteriori e organici.

 

Lo spirito (come vedremo meglio in seguito) può essere di natura celeste o di natura infernale; può essere di sfere elevate e può essere di sfere sotterranee e quindi anche quello che chiamiamo “spirito naturale” dell’uomo conosce i più diversi cambiamenti in rapporto alla posizione dell’uomo.

 

L’anima invece non si cambia mai nella sostanza; essa non ha un’infanzia, una giovinezza, una vecchiaia; l’anima è e rimane sempre quel che è.

 

L’anima del fanciullo è come l’anima dell’adulto e la differenza delle opere fra il fanciullo e l’adulto vengono soltanto dal fatto, come è stato già detto, che l’anima può usare il corpo così come esso è. Il corpo di un neonato rappresenta un organismo rudimentale che non risponde pienamente alla volontà dell’anima ed è per questo motivo che l’anima del fanciullo è considerata “innocente” cioè priva di “colpa volontaria”.

 

Anche il neonato però vive; l’istinto di nutrizione, per esempio, è attivo in esso e il neonato sa poppare meravigliosamente. L’istinto è il risultato della vita e, nell’uomo, la vita risiede nell’anima.

 

Tutte le cose che il bambino riesce a compiere, a misura che i suoi organi fisici si sviluppano, dimostrano che la sua anima è già adulta. Guardiamo quei fanciulli precoci che vengono definiti “prodigi”; essi compiono delle cose che riempiono di stupore. Da dove deriva la loro eccezionale capacità? Semplicemente da un anticipato sviluppo dei loro organi, particolarmente del loro cervello; l’anima ha in questi casi la possibilità di servirsi di strumenti pronti per l’uso.

 

Il solo sviluppo del cervello non potrebbe chiarire il fenomeno dei “fanciulli prodigio” o anche quello degli “scienziati” e degli “artisti”; può forse il cervello mettere in azione se stesso? No! Ma l’anima riflette sopra esso le proprie reazioni e manifesta attraverso esso le proprie azioni.

 

Quindi non è necessario ricorrere all’ereditarietà del psichismo dei teosofi per spiegare le meraviglie dei neonati e dei bambini; non è vero che essi sanno compiere gli atti che compiono perché hanno vissuto molte vite precedenti a mezzo della reincarnazione, ma è assolutamente vero che essi possono compiere tutti gli atti che il corpo è capace di compiere in ubbidienza alla loro anima adulta, alla loro anima che non cambia.

 

L’unico cambiamento che l’anima può subire è un cambiamento ideale, è quel cambiamento cioè che deriva dalla scelta del proprio ideale. L’anima che rigetta il peccato ed accetta Dio rimane sostanzialmente la stessa, cioè rimane sempre un’essenza spirituale identica a prima, ma viene trasformata agli occhi di Dio.

 

La nascita dell’anima

 

L’anima è l’uomo, l’anima è spirituale, l’anima è immortale…, ma quando nasce l’anima? L’anima è eterna come Dio, cioè è sempre stata e sempre sarà? Oppure l’anima ha un’origine precisa? E se ha un’origine ha anche una fine?

 

Nei primi secoli del cristianesimo questo problema fu posto al centro di discussioni lunghe e infuocate e, naturalmente, fu risolto nelle maniere più diverse e, spesso, più strane. Comunque sin dal principio fu accettato il punto fondamentale della dottrina che può essere definito in questo modo: “L’anima non è ab-eterna, ma ha un’origine e cioè viene in essere quando viene creata, però benché abbia un’origine l’anima è immortale”. L’anima dunque viene creata per non morire più.

 

Questa definizione apre altri problemi, ma serve però a precisare il punto di partenza dell’esame relativo all’origine dell’anima. Nella chiesa antica infatti circolarono molte eresie su questo punto e senza parlare di tutte basta ricordare quella sostenuta da Origene, grande dottore alessandrino vissuto fra il II e il III secolo, il quale sosteneva che le anime erano tutte esistenti avanti i secoli; esse erano le “Intelligenze pure” che servivano Dio.

 

Queste Intelligenze però furono trascinate dal diavolo, che era anche un’Intelligenza, a peccare di ribellione contro Dio e perciò caddero a causa del peccato. Quelle che peccarono molto diventarono demoni, mentre quelle che peccarono leggermente diventarono angeli, arcangeli…, secondo il grado del loro “peccato leggero“. Rimasero le Intelligenze che non avevano “peccato tanto” da diventare demoni, ma non avevano neanche “peccato poco” da diventare angeli. Le intelligenze cioè che avevano commesso un peccato che stava a metà fra quello dei demoni e quello degli angeli; queste furono le anime scelte da Dio per essere poste nei corpi. Iddio creò quindi il mondo presente nel quale noi viviamo e legò ogni Intelligenza decaduta cioè ogni anima ad un corpo. Quest’unione rappresenterebbe un castigo divino, una specie di “primo giudizio” al quale verrebbero sottoposte le anime esistenti prima della loro nascita in questa terra.

 

Come vediamo, Origene, il grande dottore d’Alessandria, ha cercato di risolvere tutti insieme molti problemi di dottrina. La sua conclusione è molto interessante e rispecchia il pensiero della filosofia greca e più da lontano, alcuni concetti religiosi dell’India, ma non può essere accettato da noi, come non è stato accettato dalla chiesa cristiana dei secoli che sono stati avanti di noi.

 

Noi affermiamo che l’anima esiste dall’istante che viene creata da Dio e affermiamo che questa creazione avviene ora e non è avvenuta prima dei secoli. Infine affermiamo che l’anima vive nel corpo fisico una sola volta.

 

Tutte queste affermazioni però non hanno ancora risolto il problema che è contenuto nella domanda: – Come nasce l’anima e quando nasce l’anima?

 

Veramente questo problema è un problema molto difficile da risolversi in modo completo e convincente, ma noi possiamo però servirci degli studi e delle conclusioni di coloro che lo hanno esaminato prima di noi e con capacità molto maggiori di quelle che noi abbiamo.

 

Questo problema è stato affrontato con grande abilità da uomini valenti ed ha avuto diverse conclusioni. Non possiamo elencare tutte queste conclusioni, ma vogliamo ricordare tre di esse e cioè le tre conclusioni che possono darci un’idea precisa dei ragionamenti profondi che sono stati fatti intorno a quest’argomento.

 

LA CONCLUSIONE DI TERTULLIANO, il grande avvocato e difensore del cristianesimo, vissuto fra il II e il III secolo. Egli afferma che l’anima dei figli deriva dai genitori cioè dal “seme corporeo” dell’uomo.

 

Quest’affermazione di Tertulliano fu chiamata “traducianismo corporale” perché nella lingua latina la parola “tradux” indica il tralcio della vite che viene piegato in terra e viene sotterrato perché produca una nuova vite.

 

La conclusione di Tertulliano però è molto confusa: non si riesce a comprendere se l’anima è materia o se è spirito; se è spirito non si riesce a comprendere in che modo la materia possa generare lo spirito. Tutti sappiamo infatti che ogni cosa può generare soltanto una cosa uguale e non una cosa opposta.

 

LA CONCLUSIONE DI AGOSTINO, il grande dottore della chiesa vissuto fra il IV e il V secolo. Egli respinge il traducianismo corporale di Tertulliano ed afferma il suo “traducianismo spirituale”. Anche per Agostino le anime dei figli vengono dai genitori, ma non dai corpi dei genitori, bensì dalle anime dei genitori. Quindi le anime non nascono dal seme dell’uomo, ma dall’anima dell’uomo, come la luce nasce dalla luce.

 

Anche questa conclusione è molto confusa e forse era confusa per lo stesso Agostino che era stato obbligato a darla per difendere la dottrina del “peccato originale”.

 

Il grande dottore voleva dimostrare che il peccato, che si trova nell’anima dei genitori, viene trasmesso all’anima dei figli, perché l’anima dei figli è generata dall’anima dei genitori come luce, da luce.

 

Che voleva dire il grande Agostino con questo giuoco di parole? Possiamo immaginarlo e possiamo chiarirlo con un esempio.

 

Pensiamo a due stanze intercomunicanti fra loro, separate cioè da una porta chiusa. In una di queste due stanze c’è una lampada accesa, nell’altra stanza c’è il buio completo. Improvvisamente apriamo la porta di comunicazione fra le due stanze e la stanza buia viene inondata dalla luce della stanza illuminata: luce, da luce!

 

La stanza illuminata è il corpo dei genitori con l’anima, la stanza buia è il corpo del figlio che deve nascere: viene improvvisamente aperta una relazione e l’anima dei genitori produce quella del figlio.

 

Se Agostino voleva dire questo, dimostrava una grande superficialità perché tutti sappiamo che l’anima come sostanza spirituale, non può dividersi e non può rigenerarsi come neanche la luce può dividersi o rigenerarsi.

 

Pensiamo di nuovo all’esempio delle due camere. La camera buia è stata illuminata dalla camera luminosa; ma quelle luci sono due luci separate e distinte? No! Quella luce è una sola luce e se noi chiudiamo di nuovo la porta la camera buia ritorna nell’oscurità perché non ha una luce propria, ma soltanto il riflesso di un’unica luce.

 

Quindi, non soltanto dobbiamo rigettare il traducianismo corporale di Tertulliano, ma dobbiamo rifiutare anche il traducianismo spirituale di Agostino. L’anima non può essere generata dal seme corporeo dei genitori e non può neppure essere generata dall’anima dei genitori.

 

Rimane quindi la terza conclusione, quella sostenuta contemporaneamente da diversi grandi uomini del cristianesimo e quindi, per questo motivo, rimasta senza il nome di alcun uomo. Ci riferiamo alla conclusione conosciuta sotto il nome di “Creazianismo”; essa asserisce che “ogni singola anima viene creata direttamente da Dio e viene infusa nel corpo quando questo è nel seno materno”.

 

Iddio non ha creata soltanto la prima anima cioè Adamo, ma ha creata ogni anima che è venuta in essere dal principio del mondo.

 

Questa conclusione, a nostro parere, ha tutto l’appoggio della Bibbia. Se noi osserviamo attentamente i molti passi della Bibbia che si riferiscono alla creazione dell’anima, non soltanto ci accorgiamo che essa sostiene il creazianismo, ma ci accorgiamo anche che la Bibbia sostiene che l’anima viene infusa da Dio nel seme umano affinché questo possa produrre la fecondazione.

 

In altre parole, la prolificazione umana rappresenta un atto di collaborazione con Dio; l’uomo compie la parte umana, cioè offre il seme, Dio compie la parte divina e cioè mette la vita nel seme: l’anima. Se Iddio non mette la vita, il seme non viene fecondato e perciò la vita non viene dall’uomo, ma da Dio sin dal primo istante della fecondazione.

 

Per questo motivo troviamo scritto: “Ho acquistato un uomo con l’aiuto dell’Eterno” Gen.4:1; Oppure: “Iddio mi ha dato un altro figliuolo” Gen.4:25; od anche: “Tengo io il luogo di Dio che t’ha negato d’essere feconda?” Gen.30:2.

 

La fecondazione è possibile soltanto con Dio e in Dio e perciò benché troviamo scritto “crescete e moltiplicate” Gen.1:28, troviamo anche scritto: “…i figliuoli sono un’eredità che viene dall’Eterno…”. Salmo 127:3.

 

Questi e molti altri passi biblici, che potrebbero essere citati, ci parlano chiaramente della nascita dell’anima. Essi ci dicono che l’anima non nasce dai genitori, ma viene creata da Dio e viene creata nel momento stesso della fecondazione che rappresenta perciò, ripetiamo, un atto di collaborazione che unisce l’uomo a Dio e Dio all’uomo. Perciò la Bibbia respinge la conclusione di Tertulliano, quella di Agostino e tutte le altre conclusioni che affermano che l’anima nasce dalla materia o che le anime dei genitori generano le anime dei figli. Respinge tutte queste idee ed afferma solennemente che ogni anima rappresenta l’opera creatrice di Dio.

 

L’esistenza dell’anima

 

Per concludere questo capitolo, dobbiamo parlare anche dell’esistenza dell’anima. Può sembrare strano che questo argomento venga trattato alla fine, invece che al principio del capitolo, ma vogliamo chiarire che per noi quest’argomento è…fuori argomento.

 

Noi non abbiamo bisogno di parlare dell’esistenza dell’anima perché ci sembra di parlare dell’esistenza di noi stessi, perché noi “siamo l’anima”; quindi se parliamo dell’esistenza dell’anima lo facciamo esclusivamente per aiutare coloro che non credono all’essenza spirituale dell’uomo; per aiutare cioè coloro i quali pensano che l’uomo è soltanto materia, soltanto corpo.

 

Essi dicono che il corpo è un organismo fisico, a mezzo dei centri nervosi e del cervello, nascono i pensieri, i sentimenti, le azioni.

 

Quando questo organismo s’invecchia, s’ammala e muore, anche i pensieri e i sentimenti finiscono. Naturalmente coloro che negano l’anima negano anche Dio e negano tutte le realtà spirituali perché credono soltanto nell’esistenza della materia.

 

A noi sembra che l’esistenza dell’anima possa facilmente essere provata anche con la ragione. Noi credenti ci fondiamo soprattutto sopra la fede, ma riteniamo che anche il ragionamento conduca alla conclusione positiva, cioè affermativa, dell’esistenza dell’anima.

 

Ecco alcune osservazioni che vengono dalla ragione:

 

Gli scienziati affermano e dimostrano che un organismo umano si rinnova continuamente in “tutte” le parti che lo compongono. Durante ogni breve periodo tutte le “cellule” di un organismo vengono sostituite da cellule, cioè da parti nuove. Quindi in ogni breve periodo l’organismo umano è rinnovato “totalmente“. Noi non siamo oggi come organismo, quelli che eravamo anni addietro: la pelle non è più la stessa, i tessuti non sono più gli stessi, la materia celebrale non è più la stessa…siamo completamente rinnovati.

 

Se i pensieri, i sentimenti, il carattere, le azioni venissero tutte dall’organismo, non potrebbero essere sempre le stesse, ma dovrebbero cambiare continuamente e l’individuo dovrebbe avere, ogni volta che le sue cellule si rinnovano, una nuova vita. Egli non potrebbe più ricordare i pensieri che sono venuti dalle cellule che non sono più e non potrebbe ricordare le opere portate a termine da un organismo che non esiste più.

 

Invece noi notiamo che l’organismo fisico si rinnova continuamente, ma che nell’individuo c’è qualche cosa che rimane sempre immutabile. L’organismo muore e rinasce ogni giorno nelle sue parti. Le cellule di ieri scompaiono e sorgono quelle di oggi, ma il pensiero dell’individuo, il carattere dell’individuo, i sentimenti dell’individuo rimangono estranei al rinnovarsi del suo organismo. Quindi l’individuo non è soltanto organismo, ma è anche, come dicono gli scienziati di problemi spirituali, psichismo, non è soltanto corpo, ma è anche anima; quell’anima che non cambia e non si trasforma con la materia perché è essenza spirituale, immutabile.

 

Passiamo ora ad una seconda osservazione:

 

Gli scienziati dicono che l’organismo umano è dotato di molti centri reagenti e un centro ricevente. I centri reagenti sono i sensi: vista, udito, gusto, olfatto e tatto, il centro ricevente è il cervello. I centri reagenti vengono colpiti dal mondo fisico e conducono le reazioni al cervello che le riceve; perciò i suoni, le immagini, i sapori, gli odori, il colore…tutto viene afferrato dai sensi e condotto al cervello. Quindi è col cervello che l’organismo riceve le impressioni della vita. Il cervello può essere perciò assomigliato ad uno specchio che riceve e riflette tutto quello che viene portato dai sensi dell’organismo.

 

Supponiamo che il ragionamento dell’uomo, il pensiero dell’uomo venissero, come dicono i materialisti, dall’organismo dell’uomo, cioè dal cervello dell’uomo; supponiamo quindi che l’uomo sia costituito soltanto dal corpo e che anche la sua ragione abbia esclusivamente un’origine fisica. Con questa supposizione abbiamo concluso che il cervello dell’uomo può essere, nello stesso tempo, centro reagente e centro ricevente, cioè che il cervello può essere uno specchio che riflette la sua immagine in se stesso.

 

Questa conclusione è assurda ed allora dobbiamo ammettere, per conclusione logica, che come il cervello riflette l’immagine portata dall’occhio o come riflette il suono portato dall’orecchio, così riflette il pensiero portato dall’anima. La presenza dell’anima è tanto evidente come è evidente quella dell’occhio nell’organismo perché come il cervello non può vedere senza l’occhio o come il cervello non può udire senza l’orecchio, così non può ragionare senza l’anima.

 

Ed ora vogliamo concludere con una terza ed ultima osservazione:

 

Gli scienziati affermano che tutto l’universo è mosso ed equilibrato da una legge di causa ed effetto ed in questa legge esiste una regola precisa e senza eccezioni: una causa produce sempre un effetto della stessa natura. L’uomo produce l’uomo, la pianta produce la pianta, l’elettricità produce l’elettricità…il materiale produce il materiale.

 

Se l’uomo è soltanto un organismo fisico cioè un corpo, come può produrre un effetto spirituale? Se l’uomo è soltanto materia, come può concepire l’idea di Dio, l’idea dello spirito che rappresentano effetti opposti alla causa?

 

Eppure la storia c’insegna che tutti gli uomini, in tutti i secoli, in tutti i luoghi hanno avuta chiara l’idea di Dio. Il loro pensiero ha sempre concepito realtà spirituali, realtà infinite fuori del mondo della materia.

 

Queste idee, queste concezioni non potevano essere gli effetti di una causa materiale, perché il materiale non può produrre lo spirituale e quindi dobbiamo concludere che erano e sono soltanto gli effetti spontanei dell’essenza spirituale che è nell’uomo, anzi che è l’uomo: l’anima. L’anima dell’uomo ha sempre prodotto gli effetti della sua essenza, cioè ha sempre prodotto pensieri spirituali e si è sempre volta verso Dio, come attratta da una affinità, da una somiglianza di essenza.

 

La sete interiore dell’uomo, i suoi pensieri elevati all’infinito, all’eterno, le sue concezioni, anche imperfette di Dio sono una dimostrazione logica, convincente dell’esistenza dell’anima. Possiamo quindi applicare a questa osservazione la frase di Agostino: – Dio, Tu ci hai creati per te e l’anima nostra non trova requie fino a tanto che non torna a Te.

 

LO SPIRITO DELL’UOMO

 

Se con il capitolo precedente abbiamo parlato della parte centrale dell’argomento, abbiamo parlato cioè dell’uomo considerato soprattutto come “anima vivente”, in questo capitolo parliamo della parte più complicata nello studio della personalità umana, e cioè dello spirito.

 

Lo studio relativo allo spirito dell’uomo si presenta difficile soprattutto perché non sempre il termine “spirito”, viene usato nella Bibbia, per esprimere il concetto distintivo del composto umano.

 

Noi troviamo il termine “spirito” usato come un contrapposto del termine “carne” (vedi Romani 8:5, 6, 9); troviamo il termine “spirito” usato per definire l’essenza spirituale dell’uomo (vedi Luca 24:39) e troviamo anche il termine “spirito”usato per esprimere i sentimenti interiori dell’uomo (vedi Luca 9:55). In questi casi la parola “spirito” non indica mai quella parte della personalità umana che è associata al corpo e all’anima, ma è usata per esprimere concetti assolutamente diversi.

 

Quindi lo studio di questa parte del nostro argomento è complicato dalla difficoltà che esiste nel trovare il significato della parola “spirito” ogni volta che essa è usata nella Bibbia.

 

In alcuni passi della Scrittura, comunque, possiamo facilmente riconoscere che questa parola è usata per distinguere il composto umano e in questi casi il termine “spirito” esprime una parte dell personalità umana. Possiamo leggere, per esempio, “…il vostro spirito e l’anima e il corpo…” I Tess.5:23.

 

Oppure:

 

“…la divisione dell’anima e dello spirito…” Ebrei 4:12;

 

Od anche:

 

…farò orazione con lo spirito, ma la farò ancora con la mente…(cioè con l’uomo razionale) I Cor.14:15.

 

Il problema si presenta veramente complicato, ma non mancano possibilità per esaminarlo e per raggiungere almeno quelle conclusioni che sono accessibili alla nostra povera mente umana. Molte conclusioni appartengono soltanto a Dio ed Egli ce le rivelerà quando saremo nella gloria, ma alcune possono essere raggiunte anche da noi, a mezzo dell’aiuto divino, ed è utile che le raggiungiamo.

 

Il nome dello spirito.

 

Incominciamo con l’esaminare il nome dello spirito.

 

Nel Vecchio Testamento lo spirito è indicato con il termine “ruàh” e nel Nuovo Testamento con il nome “pneuma”.

 

Ambedue questi nomi possono essere tradotti “aria” “soffio”.

 

Dal Vecchio al Nuovo Testamento non è avvenuto nessun cambiamento; lo spirito viene presentato dal principio come “aria” e attraverso tutte le pagine della Bibbia continua ad apparire figurato nella medesima maniera. Lo spirito è l’aria. Questa immagine ci permette di fare un confronto: l’anima è l’io, cioè l’uomo; il corpo è l’involucro dell’io, cioè il rivestimento dell’uomo; lo spirito è l’aria dell’io, cioè il respiro dell’uomo.

 

In altre parole, come l’aria nel senso fisico è il primo alimento, possiamo dire la vita stessa del corpo, così lo spirito è l’aria dell’anima cioè l’alimento invisibile dell’anima.

 

Se togliamo l’aria al corpo, provochiamo la morte del corpo; se togliamo lo spirito all’anima provochiamo l’immobilità dell’anima. L’aria è il dinamismo del corpo, lo spirito è il dinamismo cioè il movimento e l’azione dell’anima.

 

Questo concetto non ci viene suggerito soltanto dal significato linguistico del nome spirito, ma ci viene anche suggerito dai passi della Bibbia che illustrano la funzione dello spirito nell’uomo. Troviamo scritto, per esempio:

 

“…la polvere ritorni in terra…e lo spirito ritorni a Dio…” (Eccl.12:9).

 

“Padre, io rimetto lo spirito mio nelle tue mani…” (Luca 23:46).

 

“il suo spirito ritornò in lei, ed ella si levò prontamente…” /Luca 8:55).

 

“…Signor Gesù, ricevi il mio spirito…” (Atti 7:59).

 

Questi sono soltanto alcuni dei molti versi biblici che ci parlano dello spirito assomigliandolo all’aria che dà vita. L’ultimo alito di vita, rappresenta l’ultimo respiro del corpo e l’ultima manifestazione dello spirito, rappresenta l’ultima attività terrena dell’anima. Quindi lo spirito ci viene presentato dal suo stesso nome e da molti passi della Bibbia come l’elemento che produce il moto, l’azione, la vita dell’uomo.

 

Con questo aspetto dello spirito concorda anche una definizione teologica molto importante che così si esprime: “Lo spirito è il principio vitale dinamicamente procedente da Dio, è la sede degli impulsi attivi”.

 

Questa definizione teologica è importante per tre ragioni: perché è il risultato di un accurato studio teologico compiuto alla luce della Bibbia; perché esprime l’individualità dello spirito in un modo magistrale ed infine perché è stata data dalla chiesa cattolica, che nega l’individualità dell spirito e che invece, attraverso lo studio delle Scritture, è stata obbligata a fornire questa definizione.

 

Naturalmente anche questa definizione ha bisogno di essere chiarita o almeno riportata in parole più semplici, più comprensibili. Essa dichiara che “lo spirito è il principio di vita che procede da Dio e che si muove per andare da Dio all’anima e renderla attiva”.

 

Forse un esempio può chiarire meglio il concetto: immaginiamoci che l’anima sia una lampada elettrica e immaginiamoci che lo spirito sia la corrente elettrica.

 

La lampada ha una individualità e la corrente ha una individualità. La lampada sta ferma, la corrente si muove, cioè “procede dalla sua causa ai suoi effetti”.

 

Senza essere obbligati ad immaginare tutto il problema dell’elettricità pensiamo semplicemente ad una lampada elettrica della nostra casa. Essa è lì, completa, perfetta: ha il suo involucro di vetro, ha i suoi filamenti di metallo, ma è spenta. Se noi giriamo l’interruttore che chiude il circuito, cioè il percorso dell’energia elettrica, allora la corrente passa liberamente e “procede dall’interruttore alla lampada” e la lampada si accende.

 

Quando la lampada è accesa noi non distinguiamo più le due individualità: lampada – elettricità, perché vediamo soltanto una lampada accesa, ma se giriamo nuovamente l’interruttore e spegniamo la lampada, noi constatiamo che la luce era il risultato dell’unione di due individualità.

 

Ci sembra che l’esempio dato dal nome stesso dello spirito e l’esempio suggerito dalla definizione teologica dello spirito siano efficaci per farci comprendere almeno l’aspetto superficiale di questo profondo soggetto spirituale.

 

Lo spirito nella personalità umana

 

Lo spirito quindi appare come un’individualità, ma non come una personalità razionale a se stante; esso è un parte dell’uomo, ma non è l’uomo. In altre parole l’uomo è composto di un involucro che è soltanto la “sua scatola”; è composto di uno spirito che è soltanto la “sua aria” il “suo principio di vita” ed è composto di un’anima che è la sua reale personalità immortale e immutabile.

 

Il corpo non è l’uomo perché è destinato alla corruzione ed anche nella resurrezione non sarà più quello che è stato, perché il materiale sarà sostituito dallo spirituale (I Cor.15:43).

 

Lo spirito non è l’uomo perché è soltanto un principio di vita che “procede da Dio all’uomo” e che quindi non sarà più necessario quando fra Dio e l’uomo non ci sarà più spazio cioè non sarà più necessario quando l’uomo si troverà in un mondo spirituale nel quale egli stesso sarà purissimo spirito (Ebrei 12:23; I Giov.3:2).

 

L’anima invece è l’uomo nel senso più completo di questa parola ed essa sarà nell’eternità con la sua stessa, precisa personalità che già possiede nel tempo e nella vita.

 

Questa considerazione ci spiega perché, frequentemente, la Bibbia stessa, invece di chiarirci l’argomento, sembra complicarlo alla nostra mente. E’ difficilissimo, forse impossibile, scorgere le diverse individualità di una lampada accesa e così è difficilissimo dividere razionalmente le diverse individualità dell’uomo vivente.

 

Con questo ragionamento però non abbiamo voluto affermare che lo spirito sia un’essenza estranea all’uomo, indipendente dall’uomo; abbiamo voluto semplicemente dichiarare che lo spirito sta all’anima, come l’aria sta al corpo.

 

L’aria non è estranea al corpo, indipendente dal corpo, anzi il corpo vive nell’aria e l’aria circola nel corpo; ogni corpo vive nell’aria, ogni corpo ha la propria aria. Somigliantemente lo spirito non è estraneo all’anima perché ogni anima vive nello spirito e lo spirito circola in ogni anima; ogni anima adunque ha il proprio spirito.

 

L’individualità dello spirito nell’uomo

 

Se vogliamo comprendere la differenza intrinseca dello spirito fra un uomo e l’altro; se vogliamo cioè comprendere perché lo spirito di ogni uomo è differente, dobbiamo continuare a servirci dell’esempio già usato, precedentemente: quello dell’aria.

 

L’aria che circola nell’atmosfera è composta di ossigeno, azoto ed argon, ma a questo composto si miscugliano altre decine e decine di particelle fisiche; per esempio anidride carbonica, vapore acqueo, ozono, ammoniaca, nitrati, acido solfidrico, pulviscolo atmosferico ecc.

 

Ovunque noi troviamo i tre elementi principali in proporzione equilibrata, cioè ovunque troviamo ossigeno, azoto ed argon, ma non dappertutto troviamo le altre particelle nella medesima quantità. L’aria di città è diversa dall’aria di paese; l’aria di montagna è diversa dall’aria di pianura.

 

Anche in un medesimo luogo l’aria di un individuo è diversa dall’aria di un altro individuo, rispetto alla loro statura, perché, da un livello all’altro, possono avvenire mutamenti radicali del contenuto dell’aria. Quindi la personalità fisica dell’individuo si modifica secondo l’aria che respira e l’aria che l’individuo respira è diversa dall’aria che gli altri respirano: ognuno quindi ha la “propria aria”.

 

Immaginiamoci ora questa immensa atmosfera spirituale che procede da Dio come “principio di vita”; essa è intorno al mondo delle anime che vivono nel tempo e nei corpi; essa è lo spirito che mette in azione la vita.

 

A questa immensa atmosfera naturale si miscugliano però decine e decine di particelle estranee: alcune benefiche, alcune malefiche. Negli strati più bassi di questa atmosfera, queste particelle sono costituiti dai detriti dell’inferno, dal pulviscolo del male, dai vapori del peccato. Negli strati più alti queste particelle sono costituite dalle irradiazioni del bene, dalle emanazioni della verità.

 

Ogni uomo ha il suo spirito; quello spirito nel quale si trova la sua anima, quello spirito che circola nella sua anima. Lo spirito genera impulsi in ragione della sua essenza come l’aria modifica la personalità dell’individuo in ragione della sua composizione.

 

L’uomo può “cambiare aria” ed anche l’anima può “rinnovare lo spirito” (Salmo 51:10). L’uomo non esce mai dall’aria e l’aria è sempre nell’uomo, ma l’uomo può spostarsi in montagna o in pianura ed aggiungere elementi benefici o malefici al composto naturale dell’aria e così l’anima non esce mai dallo spirito e lo spirito non esce mai dall’anima, ma l’anima può aggiungere allo spirito naturali elementi elevati od elementi bassi in ragione della posizione che assume.

 

L’uomo perciò ha lo spirito naturale che è lo spirito dell’uomo, lo spirito proprio (vedi I Cor.2:1; Rom.8:16) ma egli può aggiungere a questo spirito gli elementi del cielo o gli elementi dell’inferno (vedi Giov.13:27; Fatti 2:4).

 

Il ragionamento ha confermato la conclusione già data in anticipo: lo spirito non è in se stesso “una personalità razionale”, ma è soltanto un “principio di vita” che acquista una personalità nell’unione che realizza con l’anima, precisamente come l’aria nell’uomo o come la corrente elettrica nella lampada.

 

La personalità dello spirito

 

Se lo spirito avesse una propria personalità razionale, dovremmo concludere, infatti, che l’uomo avrebbe in se stesso una doppia personalità: quella dell’anima e quella dello spirito: alla morte dell’omo quindi ci sarebbero due uomini distinti e separati.

 

Se invece lo spirito seguisse sempre l’anima e quindi alla morte dell’uomo rimanesse unito all’anima come una parte essenziale dell’anima, dovremmo concludere che lo spirito non esisterebbe come individualità, ma sarebbe soltanto un aspetto, una caratteristica dell’anima cioè parte integrale (e non integrante) dell’anima.

 

No! L’esame della Bibbia ci dichiara e la ragione ci conferma, che lo spirito il principio dinamico dell’anima, come il corpo è il mezzo di comunicazione dell’anima.

 

Con il corpo, l’anima ha, soprattutto, comunicazione con il mondo fisico e per lo spirito, l’anima ha i suoi impulsi attivi. Quindi, per concludere, noi vediamo l’uomo nell’anima mentre nel corpo e nello spirito vediamo due elementi contrapposti che, nelle loro particolari caratteristiche, si fondono con l’anima per integrare la personalità umana nella vita e nel tempo. L’uomo è un composto trino nel tempo, nella vita terrena, ma diviene un “corpo puro” “incomposto”, fuori dal tempo, nella gloria dell’eternità.

 

In altre parole l’uomo è formato nella vita terrena di corpo, anima e spirito; involucro materiale, personalità di essenza spirituale e principio dinamico di vita di essenza spirituale. Nel cielo l’uomo avrà un corpo “spirituale” e sarà una “personalità spirituale” quindi sarà un “tutto spirituale” privo di reali distinzioni di individualità o di parti che lo compongono.

 

Non pensiamo, naturalmente di aver esaurito il problema e di aver chiarito ogni concetto e non presumiamo neanche di aver convinto ogni lettore, ma pensiamo, o almeno speriamo di aver avviato il ragionamento in maniera da aiutare ed incoraggiare lo studio di questo fondamentale soggetto dottrinale.

 

Vogliamo ripetere, ad evitare ogni eventuale malinteso, che noi abbiamo una concezione tricotomica dell’uomo nel senso che noi crediamo che in questa vita, ove l’uomo vive assente dal Signore (II Cor.5:6) e a contatto con un mondo fisico, la personalità umana è composta da un elemento del mondo fisico: il corpo; da un elemento procedente da Dio: lo spirito e da un elemento stabile in sé stesso: l’anima.

 

Fuori di questa vita il problema assume un altro aspetto, sia perché l’uomo esce dal mondo fisico e sia perché l’uomo muta totalmente la sua posizione rispetto a Dio. Abbiamo accennato anche al mutamento del problema, cioè alla personalità dell’uomo fuori della vita e del mondo fisico, ma abbiamo voluto soprattutto esporre il nostro punto di vista in relazione al problema che veramente c’interessa da vicino, che c’interessa oggi: la personalità dell’uomo in questa vita.

 

L’UOMO E DIO

 

Perché è stato creato l’uomo

 

L’uomo è stato creato in adempimento di un piano preparato da Dio. L’Eterno, come savio architetto, aveva preparato un progetto di amore e di sapienza e in questo progetto aveva incluso la creazione dell’uomo; anzi la creazione dell’uomo rappresentava nel progetto di Dio il particolare più importante, il particolare centrale.

 

Iddio serbò per ultimo la creazione dell’uomo appunto perché essa rappresentava il coronamento dell’opera onnipotente dello Spirito. L’Eterno riconobbe che era buono quel che rea stato creato il primo giorno, che era buono quel che era stato creato il secondo, il terzo, il quarto e il quinto giorno; ma vide che era “molto buono” quel che era stato creato al compimento del suo progetto e cioè alla fine del sesto giorno che aveva visto finalmente l’apparizione dell’uomo.

 

Dopo l’uomo viene il riposo, anzi l’uomo è legato al riposo, come un giorno è legato al giorno che segue.

 

Iddio che si “riposa dalle sue opere” dopo la creazione dell’uomo, ci suggerisce chiaramente l’idea dell’Architetto che vede compiuto, ultimato perfettamente il suo progetto. L’uomo quindi è il compimento assoluto dell’opera di Dio.

 

Iddio ha, con la creazione dell’uomo, la sua immagine nel mondo; una creatura che assomiglia a Lui, che può parlare con Lui, che può ascoltare la Sua voce. A questa creatura Iddio conferisce autorità e capacità onde renderla sovrana nel mondo nello stesso modo che Egli è sovrano nel cielo. La somiglianza fra l’uomo e Dio viene resa ancora più perfetta. Ambedue si muovono nell’universo come dominatori: Iddio nell’alto dei cieli, l’uomo, in proporzioni ridotte, sul creato in questa terra.

 

Ma certamente il piano di Dio non si conclude nel fare una specie di ritratto di se stesso; non ha neanche lo scopo di creare semplicemente una creatura che differisca dagli angeli. Il piano di Dio è più profondo, più vasto, più glorioso. Le parole di Paolo ai Colossesi squarciano, in parte, il velo di questo mistero divino.

 

“…Tutte le cose sono state create per mezzo di lui (Gesù Cristo) e in vista di Lui…“. Colossesi 1:16.

 

Da queste parole veniamo a sapere che non soltanto ogni cosa è stata creata per mezzo di Cristo, (vedi anche Giovanni 1:4) ma anche che ogni cosa è stata creata in “vista di Cristo” cioè che ogni cosa è stata creata per accogliere Cristo, per preparare l’opera di Cristo, per permettere il ministero di Cristo, per cooperare all’esaltazione di Cristo.

 

Iddio quindi ha creato l’uomo per compiere un piano che doveva servire allo sviluppo di un altro piano. Anche qui serviamoci un poco dell’immaginazione per comprendere meglio attraverso l’esempio.

 

L’architetto ha preparato un progetto accurato per costruire “le fondamenta” di un edificio; egli segue i lavori con attenzione e con interesse e quando li vede ultimati, si riposa soddisfatto. Ma quel lavoro non è la conclusione di quanto egli ha in mente o in programma di costruire, anzi quel lavoro è soltanto la preparazione del vero lavoro; del lavoro che dovrà mostrare visibilmente e pr sempre il suo talento.

 

L’uomo è stato creato perché Iddio voleva, doveva manifestare Cristo, la Parola che era nell’eternità; quindi la creazione dell’uomo compie il progetto di Dio non soltanto perché l’uomo è la più perfetta fra le creature, ma perché con l’uomo è ultimato il piano necessario alla manifestazione e all’esaltazione della Parola.

 

Se la creazione è stata compiuta per Cristo e in vista di Cristo e se nella creazione l’uomo è stato collocato da Dio nel posto più elevato, è chiaro che l’uomo ha un compito centrale nel progetto di Dio; egli deve servire direttamente a manifestare Cristo e far esaltare Cristo, quindi l’uomo è stato creato affinché Cristo venga sovranamente e vittoriosamente glorificato.

 

La glorificazione di Cristo però non è un piano relativo all’uomo o relativo al tempo, ma è un piano relativo al cielo stesso e quindi relativo all’eternità. In altre parole l’uomo non è stato creato perché Cristo fosse glorificato soltanto di fronte all’uomo, nella vita dell’uomo, ma affinché Cristo fosse glorificato di fronte a tutti nell’eternità.

 

La Bibbia c’insegna infatti che Cristo è stato “sovranamente innalzato” ed ha ricevuto un “nome che è sopra ogni nome; acciocché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio delle creature celesti, terrestri e sotterranee; e che ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore…” Fil.2:9-11.

 

Or noi sappiamo che la gloria di Cristo viene dopo la Sua incarnazione, cioè il Suo annichilimento; sappiamo anche che la vittoria di Cristo viene dopo la sua battaglia attraverso la quale Egli riduce al niente “ogni signoria, ed ogni podestà e potenza…” I Cor.15:24.

 

Perciò noi possiamo concludere che l’esaltazione di Cristo poteva venire soltanto con la vittoria definitiva sopra le potenze del male, ma che la battaglia contro il male, personificato in Lucifero, poteva essere combattuta soltanto con la creazione dell’uomo.

 

La Bibbia ci sa ragione in questa conclusione e non soltanto ci dice “…per questo è apparito il Figliolo di Dio, acciocché disfaccia le opere del diavolo”. I Giovanni 3:8.

 

Ma ci dice anche più chiaramente: “…Egli (Gesù Cristo) somigliantemente ha partecipate le medesime cose; acciocché per la morte distruggesse colui che ha l’imperio della morte, cioè il diavolo”. Ebrei 2:14.

 

Il piano di Dio rimane in misura notevole nascosto agli occhi nostri; avvolto nel mistero, ma alcuni particolari ci vengono chiaramente dichiarati dalla Scrittura. La ragione della creazione dell’uomo rappresenta uno di questi particolari: Dio ha creato l’uomo a compimento di un piano che doveva essere la base di un piano successivo di vittoria e di esaltazione.

 

La caduta dell’uomo

 

Ma l’uomo, creato da Dio, alla Sua stessa immagine, ha assecondato il piano divino oppure lo ha rovinato?

 

La domanda è complicata ed è pericolosa. Una risposta troppo precipitosa o troppo superficiale potrebbe far concludere che Dio ha creato l’uomo per farlo cadere, oppure che l’uomo ha modificato o ritardato il piano di Dio. Tutte queste conclusioni suonano offensive alla giustizia di Dio, alla potenza di Dio, alla saggezza di Dio.

 

Cerchiamo perciò di trovare la risposta che è contenuta nella Bibbia. La prima cosa che la Bibbia ci dichiara senza equivoci, riguarda la responsabilità dell’uomo nella sua caduta.

 

La trasgressione di Adamo viene addebitata ad Adamo: egli è colpevole di fronte a Dio e Dio lo giudica e lo condanna. Adamo non ha nessuna scusa, nessuna attenuante: ha disubbidito volontariamente benché abbia ricevuto capacità per ubbidire. Non può nascondersi nella sua debolezza, nella sua ignoranza perché egli non è debole e non è ignorante.

 

Iddio non è partecipe del peccato di Adamo; non lo ha preparato, non lo ha voluto…Dobbiamo ammettere, però, che Egli lo ha preconosciuto perché l’onniscienza divina si realizza fuori del tempo e tutto è chiaro e presente davanti a Dio senza che per Lui esista passato o futuro.

 

La preconoscenza però non è partecipazione, non è responsabilità; tutto al più la preconoscenza è un elemento utilizzabile nello sviluppo di un piano. Iddio quindi può aver concepito il Suo piano tenendo presente la caduta dell’uomo e certamente ha preparato il piano della vittoria e dell’esaltazione usando anche la tragica caduta di Adamo.

 

Quindi Adamo non ha volontariamente assecondato il piano di Dio, ma con la sua caduta non lo ha ostacolato, perché il pano divino “era” prima della sua caduta ed era stato concepito tenendo presente la sua caduta. Il piano divino rimane quello che è, e in esso vengono incluse tutte le circostanze preconosciute da Dio.

 

L’Eterno, come abbiamo scritto in un’altra circostanza, agisce come un abile condottiero d’eserciti e compie i suoi piani di vittoria utilizzando anche quelle mosse belliche che apparentemente sembrano negative.

 

La caduta dell’uomo però appare come il crollo rovinoso di un edificio artisticamente edificato: la sconfitta nella tentazione, l’espulsione dall’Eden, il lavoro faticoso, il sovvertimento dell’armonia del creato e poi, sempre più in basso, le ribellioni, le guerre, le superbie…Sembra veramente di vedere, come diceva un grande letterato, “un masso che dal vertice di una rupe, viene precipitato a valle da una frana ruinosa, che lo fa rotolare rumorosamente, per la china scheggiata”.

 

Eppure anche questa caduta, questa rovina, quest’armonia turbata si trovano incluse nel piano divino. Iddio ha preconosciuto la rovina e si è servito anche di questa per sviluppare il suo disegno di vittoria.

 

Da queste rovine si formano le razze, nascono i popoli, sorgono le lingue. Da queste rovine scaturiscono i mestieri, le arti, la scienza. Soprattutto da queste rovine incomincia il vittorioso contrattacco della battaglia di Dio.

 

Sembra quasi che anche nella caduta dell’uomo Iddio abbia voluto stabilire un rapporto fra la Sua creatura e Sé stesso. Egli incomincia l’opera concepita in Cristo nell’annichilimento di Cristo. Il Figliolo scende fino ai luoghi più bassi per poi iniziare l’ascesa fino alle vette più alte.

 

L’uomo scende e scende sempre più in basso, perché possa poi essere elevato in alto nella vittoria di Cristo.

 

Se l’uomo non fosse arrivato fino al fondo della valle, Cristo non avrebbe potuto compiere il proprio annichilimento, perché Cristo è sceso dal cielo fino all’uomo e se Cristo non avesse potuto compiere il proprio annichilimento la vittoria di Cristo non sarebbe stata completa.

 

L’uomo, in altre parole, precipita in basso fino all’ultimo livello della caduta e Cristo va fino all’uomo e riporta la vittoria sulle potenze che sono in tutti i livelli del mondo spirituale, principiando dal più basso ed elevandosi come un trionfatore fino al cielo (vedi Colossesi 2:15; Efesi 4:10).

 

Tutti gli eserciti, tutte le potenze, tutte le autorità sono frantumate dalla vittoria di Cristo; da quella vittoria alla quale, inconsapevolmente, ha partecipato l’uomo con la sua rovinosa caduta usata da Dio come un elemento di battaglia.

 

La salvezza dell’uomo

 

La vittoria di Cristo è la vittoria di Dio, ma diviene anche la vittoria dell’uomo. Cristo vince per adempiere il piano di Dio, Cristo vince per acquistare un nome che è sopra ogni nome, ma Cristo vince anche, ed anzi soprattutto, diciamo noi, per salvare l’uomo, per redimere l’uomo.

 

Il primo Adamo è caduto, ma la sua caduta ha permesso l’apparizione del secondo Adamo, dell’ultimo Adamo: l’uomo è salvo.

 

Non possiamo in questo studio particolare indugiarci ad esaminare la dottrina della salvezza. Speriamo di poter affrontare, in uno studio successivo, l’analisi delle varie fasi dell’opera meravigliosa della redenzione onde vedere da vicino, alla luce delle Scritture, il meccanismo spirituale del perdono, della giustificazione, della rigenerazione, della santificazione, della glorificazione. Ma anche senza entrare profondamente nell’argomento possiamo dichiarare: – L’uomo è salvo; è salvo in Cristo e mediante l’annichilimento di Cristo.

 

Iddio ha compiuta l’opera della vittoria e ha compiuta l’opera della salvezza. La prescienza Gli ha fatto vedere la caduta dell’uomo, e Gli ha fatto preparare e compiere la salvezza dell’uomo. L’uomo quindi è salvato anticipatamente in Dio e perciò un Dio che crea un uomo che Egli preconosce infedele, non è un Dio crudele, ma un Dio amoroso. Dio accetta l’infedeltà dell’uomo, volge quell’infedeltà al compimento dei Suoi piani e provvede alla salvezza dell’uomo.

 

L’uomo però non è salvato soltanto in questo piano universale di redenzione, cioè l’anticipata opera di misericordia non riguarda soltanto l’intera umanità, ma l’uomo, anche individualmente, è partecipe del risultato dell’opera della redenzione.

 

Desideriamo essere estremamente chiari per non essere fraintesi.

 

Noi non crediamo alla predestinazione nel senso che Dio voglia creare alcuni uomini per il cielo e alcuni uomini per la perdizione, ma crediamo però che Dio conosce tutti gli uomini prima ancora della loro nascita. (vedi Gal.1:15; Ger.1:5).

 

Iddio conosce “ogni” uomo; Iddio ama “ogni” uomo; (Giov.3:16 I Tim.2:4) Iddio chiama “ogni” uomo; Iddio salva “ogni” uomo; Iddio glorifica “ogni” uomo.

 

Nel piano di Dio c’è conoscenza, amore, chiamata, salvezza e glorificazione per ogni uomo. Questo non vuol dire che “tutti” gli uomini vengono salvati, (Marco 16:16) perché gli uomini sono stati creati da Dio assolutamente liberi di scegliere la bandiera sotto la quale desiderano arruolarsi.

 

La perdizione degli impenitenti, che pur sono stati conosciuti da Dio, amati da Dio, chimati da Dio e salvati e glorificati nelle intenzioni di Dio, non sarà una sconfitta per il nome di Dio, perché essi risulteranno arruolati nell’esercito perdente capitanato dal diavolo.

 

L’uomo nell’eternità

 

L’uomo è salvato in Cristo e con Cristo, cioè partecipa la vittoria di Cristo perché si lega a Cristo per la fede nella sua vittoria.

 

La vittoria di Cristo diviene per l’uomo elevazione; egli viene condotto in alto assieme a Cristo; (Giov.12:32) più in alto del livello del primo Adamo e più in alto degli angeli celesti: (Ebrei 2:7). L’uomo viene posto nel piano gerarchico di Dio, immediatamente dopo Cristo (Apoc.3:21) quasi ad occupare quel posto reso vacante dalla ribellione di Lucifero (vedi Ezechiele 28:14).

 

Il diavolo aveva turbata l’armonia della terra e l’armonia del cielo, ma Iddio, nella vittoria di Cristo, ha ristabilito l’armonia del cielo e l’armonia della terra (Colossesi 1:20) e l’uomo è stato incluso a cooperare e poi a partecipare le conclusioni gloriose di questo piano.

 

Lucifero è avvilito, è vinto: Iddio ha dimostrato la potenza della vittoria in cielo e in terra. L’angelo della superbia non soltanto è stato rovesciato dal cielo, ma è stato anche avvilito in terra; non soltanto è stato sconfitto da Dio nello spirito, ma è stato anche abbattuto da Dio incarnato.

 

Nel cielo Dio ha voluto intorno a sé e contro Lucifero gli angeli fedeli e ha vinto; in terra Dio si è servito di quegli stessi uomini che il diavolo credeva di aver vinto per sempre.

 

Ormai l’uomo che ha cooperato inconsapevolmente all’adempimento del piano della misericordia, della sapienza e della potenza di Dio, è glorificato con Dio; entra nella vita intima di Dio ed entra così profondamente che solo un’immagine umana molto viva, molto cruda, può aiutare a cogliere questo elevato concetto: l’uomo diviene “una stessa carne con Cristo” (Efesi 5:31-32).

 

Da Adamo nell’Eden alla Sposa dell’Agnello nel cielo è tutto un poema che parla dell’amore di Dio e della potenza di Dio.

 

In questo poema si odono sovente gli accenti dolorosi delle rovine umane, ma essi non possono coprire le melodie infinite ed eterne di Colui che ci ha creati e ci ha salvati “non per farci perire, ma per darci la vita e la gloria in eterno” II Pietro 3:9.

 

Questo piano luminoso di potenza e di misericordia esprime gli accenti più alti dell’amore di Dio. Egli ci ha creati, ci ha salvati per darci il luogo di gloria più elevato e farci regnare nell’eternità a fianco al Suo Figliolo, ma questo piano, ci spiega altresì l’odio infernale del diavolo verso l’uomo, contro l’uomo.

 

Lucifero vede nell’uomo l’odiata immagine di Dio; Lucifero vede nell’uomo lo strumento usato da Dio contro di lui e, soprattutto, Lucifero vede nell’uomo la creatura preparata da Dio per ristabilire l’equilibrio dei luoghi celesti; la creatura cioè che, in un certo senso, è stata eletta a sostituire il più eccelso e il più risplendente fra gli angeli di Dio.

 

Il destino eterno dell’uomo è chiuso dentro questa sintesi:

 

- Creato per amore, perdonato per amore, salvato per amore, glorificato nell’alto dei cieli per amore; l’uomo è l’oggetto dell’amore di Dio nel senso più completo della parola ed è in questa manifestazione di amore infinito che il piano di Dio si compie e che Cristo è esaltato nei secoli dei secoli: Amen!

CONTESTAZIONE GLOBALE

CONTESTAZIONE GLOBALE

10 settembre 2013 Studi Biblici R.B.

NEW43di Roberto Bracco - (STUDIO BIBLICO INEDITO ) - Oggi, con una dimensione senza precedenti, si manifesta a livello mondiale quel fenomeno definito “Contestazione globale”. Gli aspetti del fenomeno sono molteplici e multiformi, ma uno fra questi attira l’attenzione in un modo particolare e per il suo carattere di violenza e per la sua fisionomia ampiamente rivoluzionaria: “la contestazione dei giovani”. Il fulcro della contestazione è costituito dalla posizione che i giovani rivendicano a loro stessi: posizione di autonomia e di priorità; i due termini presentano una contraddizione, ma la contestazione non tiene presenti queste sottili considerazioni di logica. Lo slogan è: “largo ai giovani”; largo fino al punto da spianare la strada e liberarla dalle strutture che urtano i desideri di libertà di questa processione.

 

I giovani vogliono demolire, riformare, capovolgere… e in tutto questo lavoro vogliono trovarsi più che in primo piano vogliono trovarsi esecutori esclusivi. Da questo stato di cose nasce il conflitto fra la nuova e la vecchia generazione; fra figli e genitori; subalterni e dirigenti; fra studenti e docenti. I primi condannano quasi senza riserve il passato, e negano quasi in modo assoluto l’autorità dei loro ascendenti. Vogliono costruire un “presente” che abbia la mira di un “futuro”, ma che non senta la necessità di un “passato”. La tesi è assurda e le conseguenze sonospesso aberrazioni autentiche che hanno la più esplicita manifestazione nell’irriverenza, nell’insubordinazione, nell’immoralità o nella licenza, nella confusione.

 

Forse non ci interesseremmo di questo problema che si inserisce ai mille altri che angosciano il mondo se, purtroppo, i riflessi di esso non giungessero anche alla chiesa. Anche questa volta ed anche per questo fenomeno la chiesa ha dovuto constatare la fragilità delle proprie fortificazioni e del proprio recinto. I giovani nella chiesa, in una dimensione più ristretta e in una forma meno violenta, sono divenuti contestatari e non soltanto nei confronti delle strutture, ma anche delle gerarchie derivanti dall’età o dal ministero. Insofferenti alla disciplina, chiusi all’insegnamento, insubordinati all’autorità, creano spesso nel seno della comunità, una corrente che, sotto l’insegna dell’anticonformismo, dell’anti-puritanesimo, dell’anti-formalismo e di molti altri “anti” finisce per essere soltanto una corrente mondana, carnale e, naturalmente, passiva e negativa nei confronti della testimonianza e del servizio cristiano.

 

Non vogliamo entrare nel merito del problema sociale e quindi nell’analisi del fenomeno che si manifesta nel mondo, ma vogliamo invece ricordare che ogni “contestazione” è squalificata nel seno del cristianesimo quando questa mira a sovvertire quei principi che sono stati stabiliti dalla Parola di Dio. La dottrina del Signore non può subire trasformazioni in rapporto all’evoluzione della società o al modificarsi del pensiero; la perfezione assoluta non può essere perfezionata e quindi la regola cristiana dei secoli passati ha valore normativo per la chiesa di oggi.

 

Possiamo contestare il male, il peccato, le alterazioni, ma non possiamo e non dobbiamo imitare il mondo in una “contestazione” che abbia come bersaglio quel patrimonio di valori che rappresentano il vero tesoro della chiesa e il reale alimento per una brillante testimonianza cristiana.

 

Ai giovani, a tutti i cari desiderosi non di contestare per sentimento imitativo e quindi desiderosi di non fare della contestazione fine a se stesso o fine umano, vogliamo ricordare qui di seguito alcuni principi fondamentali di autentica vita spirituale.

 

1) I GIOVANI NELLA FAMIGLIA

 

a) Ubbidienza ai propri genitori. Efesi 6:1-2.

 

b) Sovvenire ai propri genitori ed agli avi. Marco 7:11; 2 Tim. 5:4.

 

NOTA L’opposto di questa pratica assume consistenza sempre più drammatica fra i giovani di oggi che vedono nei propri genitori soltanto una fonte da sfruttare e quindi da abbandonare quando esaurita.

 

c) Essere attenti ai consigli dei propri genitori. Ruth 3:1, 5.

 

2) I GIOVANI VERSO GLI ANZIANI E I MINISTRI

 

a) In attitudine di sottomissione e di rispetto. I Pietro 5:5

 

b) In posizione di discepoli. I Tim. 1:2; Tito 1:4

 

NOTA “Discepolo” vuol dire allievo, cioè colui che impara da chi è capace d’insegnare.

 

3) I GIOVANI E L ‘ATTIVITÀ’ NELLA CHIESA

 

NOTA Iddio assegna i compiti e li assegna anche indipendentemente dall’età, ma la nostra posizione deve rispecchiare sempre quell’umiltà che sia dimostrazione della consapevolezza della nostra condizione, e poiché quella del giovane e contemporaneamente una posizione costituita da una riserva di energia fisica (Prov. 20:29) e da uno stato di apprendistato, è ovvio che egli debba accettare determinate attività.

 

a) Di servizio ai più vecchi. 2 Re 3:11.

 

b) Di servizio per la comunità. 2 Re 6:1-2

 

c) Esecuzione di opere anche ingrate, ma necessarie per tutti. Atti 5:6,10.

 

NOTA: Notare quale differenza fra il sentimento di questi giovani e fra quello di tanti dei nostri giorni che concepiscono il servizio solo in funzione di esaltazione e di prestigio.

 

4) I GIOVANI E LA TESTIMONIANZA CRISTIANA

 

NOTA Premesso che i giovani vengono generalmente osservati con maggiore attenzione e che nella vita dei giovani la salvezza può apparire con una sua evidenza particolare, bisogna concludere che proprio su questo piano la “contestazione” negativa deve essere ripudiata in maniera energica.

 

a) Una testimonianza sana nel parlare, nella condotta, nella temperanza. Tito 2:7

 

b) Una testimonianza che dimostri il superamento delle superficialità e delle leggerezze naturali nella giovinezza. 1Tim. 4:12

 

5) I GIOVANI NEI RAPPORTI FRA LORO

 

a) I giovani come fratelli (non amici nel senso sociale) per cercare uniti il bene. 1 Tim. 5:1; Tito 2:7

 

b) Le ragazze come sorelle in ogni purezza di parola e di azione. 1Tim. 5:1

 

c) La ragazza con se e con le altre nella ricerca delle cose del Signore. 1 Cor. 7:34 Nota: Questa è la condizione ideale della fanciulla cristiana.

STUDIO

IL PADRE NOSTRO

27 aprile 2000 Studi Biblici R.B.

Preghiera insegnata da Gesù ai Suoi discepoli e che prende il nome dalle prime parole di essa.

E’ considerata, nel seno della cristianità, il modello perfetto della preghiera.

 

1) Introduzione:

 

a) E’ stata insegnata da Gesù per correggere tutti gli errori che si seguivano nelle preghiere.

(Matteo 6:8).

 

b) E’ stata altresì insegnata per appagare profondamente il bisogno spirituale dei credenti.

(Luca 11:1)

 

c) E’ stata insegnata con la precisazione che deve essere elevata con attitudine umile e devota.

(Matteo 6:6)

2) Schema:

 

Questa preghiera contiene tutti quegli elementi che fanno di un discorso umano, una vera preghiera.

 

a) Tributo di gloria

 

« sia santificato…».

 

b) Ricerca di beni spirituali

 

« il tuo regno venga…».

 

c) Ricerca di cose necessarie

 

« dacci oggi il nostro pane…».

 

d) Umiliazione

 

« rimettici i nostri debiti… ».

 

e) Ricerca di protezione

 

«non indurci… liberaci… ».

 

f) Dossologia

 

«perché a te appartiene…».

 

Se osserviamo l’ordine delle diverse parti della preghiera notiamo che è quello insegnato dalle scritture. Matteo 6:33

 

3) Rapporti che determina:

 

Il « Padre nostro » rappresenta l’ultima rivelazione relativamente alla preghiera perché stabilisce un rapporto di profonda intimità tra il figlio ed il Padre, ma questa preghiera ci mostra una meravigliosa verità e cioè che Iddio ci accoglie affinché di fronte alla Sua presenza possiamo conoscere e riconoscere sempre più chiaramente la nostra povertà spirituale.

 

a) « Padre nostro »: Il figlio che prega;

 

b) « sia santificato »: Il credente che adora;

 

c) « il tuo regno »: Il suddito che supplica;

 

d) « la tua volontà »: Lo schiavo che chiede;

 

e) « dacci oggi…»: Il mendicante che implora;

 

f) « rimettici… »: Il peccatore che invoca;

 

g) « liberaci… »: Il pericolante che spasima.

 

4) Esegesi della preghiera:

 

a) Padre nostro…

 

Questa invocazione ci pone su un medesimo piano con Colui che si è fatto nostro fratello, affinché con Lui fossimo coeredi di Dio cioè con Cristo ed in pari tempo ci ricorda che siamo stati adottati a Dio per esserGli figlioli in senso perfetto.

 

Romani 8:15-17.

 

b) che sei nei cieli…

 

Parole che elevano lo sguardo in alto, cioè al disopra delle miserie e delle limitazioni umane, nell’eterno e nell’infinito e ci fanno altresì ricordare la potenza di Colui che siede nei cieli.

 

Filippesi 3:20; Salmo 2:4.

 

c) sia santificato il tuo nome…

 

La prima richiesta ci conduce ad esprimere il desiderio di acquistare riverenza, adorazione e sottomissione ai piani eterni di Dio.

 

Salmo 103:1-5; Giovanni 17:19.

 

d) il tuo regno venga…

 

La richiesta continua ad esprimere un desiderio squisitamente spirituale; la ricerca è rivolta verso il Regno di Dio che deve essere stabilito nel cuore e nel mondo. Il credente è sospinto verso le realtà invisibili, ma eterne.

 

Luca 17:21; Rom. 8:17-23.

 

e) la tua volontà…

 

Sembra questa essere il centro della preghiera intesa come richiesta. Il credente è condotto verso l’oggetto essenziale della sua vita: l’adempimento perfetto della volontà divina nell’ubbidienza della Sua legge, nella fedeltà al Suo servizio, nella sottomissione ai Suoi programmi.

 

Salmo 119:9; Isaia 6:8; Fatti 21:14.

 

f) come in cielo…

 

La richiesta precedente assume con quest’inciso una fisionomia più precisa, un limite determinato. Il desiderio della fedeltà è chiarito nei termini ed il credente può supplicare di essere aiutato ad eseguire il volere divino nell’ordine, nella prontezza e nell’umiltà che regnano nel cielo.

 

Fatti 16:6.7; Fatti 16:10; 1 Tessalonicesi 2:4.

 

g) dacci oggi…

 

La richiesta raggiunge ogni zona dei bisogni umani ed insegna delle preziose lezioni ai credente. Prima di tutto gli insegna la dipendenza da Dio, dal Quale deve giungere la provvidenza di ogni giorno; secondariamente gli insegna la sobrietà esortandolo ad accontentarsi del bene per ogni giorno; ed infine gli insegna la tempestività della richiesta a Dio spingendolo alla preghiera all’inizio di ogni giorno.

 

Matteo 6:34; Esodo 16:20; Luca 12:18-19.

 

h) il nostro pane…

 

Il pane è il nutrimento. Il nutrimento del corpo e dell’anima può venire soltanto da Dio, deve essere richiesto unicamente a Dio.

 

Fil. 4:6; Giov. 6:35.

 

i) rimettici…

 

La preghiera è incompleta senza l’umiliazione e la confessione. Noi siamo debitori di Dio e ci troviamo nell’impossibilità di saldare i nostri debiti. Ogni peccato che commettiamo è un furto della Sua gloria, una distruzione delle Sue proprietà, una violazione delle Sue leggi, e quindi Egli ha diritto ad un risarcimento; noi siamo debitori.

 

Le nostre giustizie e la nostra religiosità però non possono saldare il nostro debito e quindi dobbiamo confessare i nostri mali ed umiliarci perché Egli possa rimetterci ogni peccato in Cristo.

 

1° Giovanni 1:8-9; Salmo 49:7-8.

 

l) come noi li rimettiamo…

 

Parole meravigliose che ricordano che non possiamo ricevere quello che non siamo disposti a dare perché tutto, nel mondo dello Spirito, conosce una legge di reciprocità e di amore.

 

Matteo 18:2335; Marco 11:25.

 

m) non indurci in tentazione ma liberaci…

 

La preghiera volge al termine, fra poco il credente riprenderà le sue battaglie, le sue lotte ed ha bisogno di chiedere energia spirituale per vincere le tentazioni nella sua vita e le circostanze fuori della sua vita.

 

Giacomo 1:14; I Pietro 4:7; I Corinzi 16:13.

 

n) perché tuo è il Regno…

 

La preghiera si chiude nel medesimo modo che principia; è un inno di gloria, di adorazione e di esaltazione quello che conclude la vera, perfetta orazione che non sarà mai soltanto richiesta, o non sarà mai soltanto confessione, ma avrà sempre in se stessa gli elementi di una completa conversazione con Dio. Qui è riconosciuta soprattutto la sovranità di Dio e la potenza di Dio.

 

I° Samuele 8:7; Salmo 97:1; Giobbe 42:2.

 

STUDIO

SE AVESSI UN

PASTORE di Roberto Bracco

 

INDICE:

INTRODUZIONE

ASSIDUO ALLE RIUNIONI

ATTENTO E RIVERENTE

UBBIDIENTE AGLI INSEGNAMENTI

COLLABORARE NEL SERVIZIO

SALVAGUARDARE LA SUA PERSONALITA'

PREGARE PER LUI

ESPRIMERE GRATITUDINE

 

 

INTRODUZIONE

Nella mia posizione di pastore non sempre mi è facile esporre quegli insegnamenti

contenuti nelle Scritture, che esortano ad avere amore e stima per i conduttori o che

raccomandano la sottomissione, l’ubbidienza e l’affetto a coloro che si affaticano nel

servizio del Signore. Queste lezioni sulle mie labbra, come d’altronde sulle labbra di

qualunque pastore, sembrano spesso e sembrano a molti apologie interessate e vengono

ascoltate, come si ascolta l’esposizione di una tesi, che deve servire soltanto per difendere

o dar lustro a colui che la espone.

Nonostante le difficoltà, naturalmente, non mi sottraggo dal presentare “tutto il

consiglio di Dio al popolo” e non soltanto per il desiderio di essere fedele nel ministerio

ricevuto, ma anche per procacciare il bene di ogni figlio di Dio.

lo so, perché la Scrittura lo dice e l’esperienza lo conferma, che l’amore, la stima e la

sottomissione, che si offrono ai conduttori, si traducono in una benedizione per tutti coloro

che godono il frutto del servizio cristiano.

I conduttori, infatti, sono gli strumenti usati da Dio per l’edificazione della chiesa e

nell’opera del ministerio possono essere assomigliati ai canali attraverso i quali fluisce

copiosa e ristoratrice la benedizione di Dio per la Chiesa. L’efficacia di questi strumenti è

in parte condizionata dalla posizione del popolo di Dio che può, di fronte ad essi,

assumere posizioni positive o negative: se i conduttori vengono costretti a compiere il loro

servizio con sospiri e lagrime, il ministerio è mortificato; se invece possono assolverlo

gioiosamente nel seno di una chiesa fedele, il ministerio è esaltato.

Qualcuno ha detto: “La comunità influisce sull’opera del ministerio più di quanto il

ministerio non influisca sulla comunità”. Quest’affermazione ci vuol semplicemente dire

che i credenti possono fare per il conduttore anche più di quello che il conduttore fa per

loro; il vantaggio naturalmente è sempre da parte della chiesa, che può compiere l’opera

nell’unione di molti verso uno, per poi godere il servizio di uno a favore di molti. Per

compiere il proprio dovere cristiano a favore dei conduttori, particolarmente a favore del

pastore, è sempre necessario ricordare che egli ha bisogno di aiuto, conforto ed

incoraggiamento al pari degli altri. Non esistono pastori perfetti ed infallibili, perché la

perfezione è il traguardo finale di ognuno e l’infallibilità è un attributo, che appartiene

soltanto a Dio.

L’Apostolo Giacomo, austero conduttore dei giorni apostolici, scriveva ai credenti del

secolo d’oro del cristianesimo: “…diletti, TUTTI FALLIAMO intorno a molte cose…“. Egli

non si estraniava da quella condizione universale di fallibilità e benché rivendicasse con

sacra autorità la propria posizione di servitore di Dio (Giacomo1:1), riconosceva anche la

propria condizione di debolezza e di imperfezione. Appunto, perché debole ed imperfetto,

il conduttore conosce, oltre che le tentazioni comuni a tutti gli altri che vivono nella carne,

anche gli scoraggiamenti, la stanchezza, la perplessità, lo sconforto. Forse è utile

ricordare che gli attacchi nemici si concentrano con particolare intensità e violenza verso

quello che può essere definito lo “stato maggiore” della chiesa: pastori, missionari,

predicatori, evangelisti hanno sempre conosciuto concentrazioni massicce di potenze

infernali sferrate contro la loro vita e il loro ministerio.

Spesso nel servizio di Dio le mani “si appesantiscono e si stancano”; quante lagrime,

quanti sospiri, quante preghiere angosciose gonfiano il petto dei conduttori, mentre il

“carico dell’Eterno” pesa sopra di loro. Coloro che vegliano per le anime, affidate al loro servizio, frequentemente, vegliano anche per le preoccupazioni, per i dolori, per le

provocazioni, per l‘insensibilità, che raccolgono in mezzo al popolo e allora quelle notti

“bianche” diventano una parola tentatrice, che cerca di insinuare lo scoraggiamento, la

defezione, forse la ribellione.

Se ogni credente si rendesse conto di questa realtà, cercherebbe per il bene del

proprio pastore, per il bene della chiesa e per il proprio bene di “dare” a colui che lo

ammaestra e che veglia per lui, tutto quello che potrebbe sollevare le sue mani, onde

rendergli sereno il servizio, lieto il cammino, gioiosa la comunione.

Le “mani alzate” saranno sempre la vittoria della chiesa cristiana e quindi l’allegrezza

in comune del ministro, che assolve il servizio e dei fedeli che, nella collaborazione

affettuosa, sorreggono le sue braccia.

Il pastore, è stato detto, è l’unico membro di chiesa che “non ha pastore”; non può

godere l’assistenza, che altri godono, e non può contare sull’aiuto, che altri reclamano.

Questo è vero, almeno dal punto di vista umano, ma, nonostante io non abbia pastore,

nulla e nessuno mi impedisce d’immaginare quel che farei o piuttosto, che vorrei fare se

avessi un pastore.

Ecco quel che vorrei fare in maniera pratica e concreta per il mio pastore: ESSERE ASSIDUO ALLE RIUNIONI DI CULTO

 

Non vorrei mai mancare a quello che, oltre ad essere un appuntamento con Dio è

anche un appuntamento col pastore; io so che un servo di Dio non manca mai alle riunioni

ed io vorrei dargli sempre la consolazione della mia presenza.

Quando un pastore sale sul pulpito, conclude con quest’atto solenne l’attesa ansiosa

che lo ha tenuto in preghiera davanti a Dio nel corso della giornata; egli ha chiesto

ispirazione, guida, luce, potenza; ha domandato quel cibo che viene dal cielo e che serve

per i bisogni del popolo. Trovarsi poi, più o meno inaspettatamente, davanti ad una sala

grigia e di fronte a dei banchi vuoti rappresenta la circostanza più deprimente, che si

possa presentare a colui che ha onestamente cercato dì "apparecchiare un convito", ma

non vede giungere gli invitati.

Se avessi un pastore, vorrei, anche per essere d’incoraggiamento al suo ministerio,

mettere il Regno dei Cieli avanti ad ogni cosa e quindi, nel giorno e nell’ora designati per

le riunioni, procaccerei di dimenticare tutte le mie preoccupazioni profane o sociali e vorrei

anche superare tutte le difficoltà ordinarie o straordinarie, per essere nella "casa di Dio"

assieme al servo del Signore.

Molti cristiani riservano alle riunioni di culto solo il tempo libero delle belle giornate,

quando non hanno nulla da fare e il cielo è sereno, sono pronti a trascorrere un’ora di

"distrazione" nella comune radunanza, ma quando hanno impegni sociali, affari materiali o

forse un piccolo raffreddore, oppure quando il vento soffia e la pioggia scroscia,

dimenticano facilmente che il bene dell’anima e le realtà dello Spirito dovrebbero essere

poste sopra ogni altra cosa. Questi cristiani a metà danneggiano la loro vita, ma di riflesso

turbano ed ostacolano il ministerio, perché un pastore, che è costretto ad esercitare il suo

servizio nel mezzo della defezione generale, non può non avvilirsi nell’espletamento del

proprio compito.

Non è vero che l’assenza passa inosservata e non è vero, come pensano alcuni, che

il pastore non si accorge che alcuni mancano, perché non soltanto i vuoti desolanti

rappresentano una dura ed eloquente testimonianza, ma anche il silenzio che segue

all’appello, che il pastore fa immancabilmente nell’intimo del proprio cuore, costituisce una

denuncia per una chiesa indifferente. Il servo di Dio pensa a tutti gli assenti, passa in

rassegna la loro vita e scandisce dentro di se i loro nomi. Quando questi nomi aumentano

ed aumentano di numero, il cuore del ministro ne avverte il peso opprimente e si

scoraggia.

Io vorrei, perciò, trovarmi sempre al mio posto e, sopratutto, non vorrei mancare alle

riunioni, che più facilmente possono essere disertate dalla massa: mi riferisco

particolarmente alle riunioni di preghiera, dove vorrei essere al fianco del mio pastore,

perché potesse vedere che altri sentono con lui il bisogno di cercare l’assistenza divina e

perché potesse essere consolato nel constatare che non tutti hanno lasciato cadere

l’esortazione rivolta dal pulpito di raccogliersi e stringersi davanti a Dio.

Un pastore onesto, realmente desideroso della prosperità della chiesa, non manca di

volgere un costante appello al popolo per l’esercizio della preghiera. In tempo di crisi

quest’appello è sistematicamente ignorato, ma le diserzioni non ricadono soltanto sopra i cristiani, che le consumano, anzi, anche sopra il pastore, che deve assistere col pianto nel

cuore allo spettacolo dell’indifferenza e dell’insensibilità di un popolo, che non sa più

rispondere all’esortazione affettuosa, che è poi l’esortazione misericordiosa di Dio. ESSERE ATTENTO E RIVERENTE

DAVANTI AL SIGNORE.

 

Un pastore può essere ispirato soltanto da un popolo, che accede alla casa di Dio

con timore e che rimane nella presenza del Signore con riverenza ed attenzione. Coloro

che si presentano per essere loro stessi "uno spettacolo" e che vengono con i molteplici e

multiformi elementi di vanità femminile o maschile, per ostentare la loro eleganza o per

rivaleggiare sul piano della moda o della bellezza, non possono che turbare il pastore al

pari, d’altronde, di coloro i quali durante lo svolgimento della riunione mostrano di

annoiarsi, di aver fretta o di non interessarsi affatto.

Io vorrei essere un’ispirazione per il mio pastore e non soltanto "andando nella casa

di Dio" adorno di verecondia e modestia e, più ancora, di sincerità ed umiltà, ma anche

rimanendo nella presenza del Signore con riverenza ed attenzione. Non vorrei inchinarmi

continuamente all’orecchio del mio vicino per parlare e neanche vorrei porgere la mia

attenzione ai commenti del fratello alla mia destra o alla mia sinistra; non vorrei voltarmi

indietro e non vorrei consultare continuamente il mio orologio; non vorrei ciondolare il mio

capo e abbassare le mie palpebre e non vorrei sventagliarmi rumorosamente o

vivacemente tergermi il sudore.

Se avessi un pastore, vorrei pendere dalle sue labbra e interessarmi delle sue

esortazioni, dei suoi avvertimenti e del suo messaggio; vorrei volgere gli occhi verso di lui

e palesare apertamente il mio assenso, affinché egli potesse vedere e "sentire" che

l’opera del ministerio non è vana, ma è seguita ed apprezzata dai fedeli.

Sono certo che la mia attenzione riverente e sincera assieme alla preghiera, che

vorrei formulare dall’intimo del mio cuore, darebbe forza spirituale al messaggio del mio

pastore, perché tutti i servitori di Dio trovano vigore nell’attenzione profonda di coloro che

ascoltano la parola. ESSERE UBBIDIENTE AGLI INSEGNAMENTI

O ALLE ESORTAZIONI

"Ubbidite ai vostri conduttori..." è un ordine dato dalla Scrittura per il bene dei

credenti, ma anche per la consolazione di coloro che si affaticano nel campo di Dio. Come

un padre trova sollievo ed incoraggiamento nella sottomissione affettuosa dei propri

figliuoli, cosi un pastore trova Iena nell’ubbidienza di un popolo, che non soltanto è pronto

ad ascoltare, ma anche a praticare l’insegnamento, che è dato nel nome del Signore.

Io vorrei trovarmi in prima fila nell’ubbidire al mio pastore, lontano da coloro che si

dilettano a gettare gli insegnamenti dietro le proprie spalle o da coloro che provano il gusto

malefico di fare esattamente l’opposto di quanto viene loro raccomandato. Le parole del

servo di Dio sono le parole stesse di Dio (I Timoteo 2:13) ed io vorrei raccoglierle

umilmente e fare di esse la regola della mia vita di cristiano.

Potrebbero, forse, essere parole dure, severe, dolorose, ma io non vorrei neanche

pensare che il mio pastore potesse predicare per il diletto di colpire o di distruggere e,

quindi, vorrei ripetere col Salmista: "... pestimi pure il giusto e ciò mi sarà benignità,

riprendami egli e ciò mi sarà come olio eccellente".

Vorrei essere ubbidiente anche nelle particolari esortazioni e nelle raccomandazioni

di circostanza, che il pastore fosse costretto ad esprimere. La vita di una comunità è

sempre molto complessa e non mancano mai cose, che devono essere fatte o circostanze

ordinarie e straordinarie, che devono essere affrontate. Il pastore deve cercare le soluzioni

e, in questa ricerca, deve esprimere esortazioni, fare raccomandazioni o volgere appelli.

Io vorrei prestare affettuosa attenzione alle parole del mio pastore ed essere pronto

ad assecondare il suo sforzo sottomettendo la mia vita alle sue parole. Sono sicuro che

questo sarebbe un valido contributo per il raggiungimento di quell’ordine e di

quell’equilibrio che sono auspicabili per ogni comunità. È triste, infatti, lo spettacolo di

quelle chiese aggravate perennemente da disordini insanabili o da perniciose situazioni

croniche, oppure di quelle chiese rese sterili da servizi incompiuti o da attività trascurate e

tutto questo, perché i membri di esse non si curano di ascoltare e seguire le esortazioni

dei conduttori.

Se tutti riconoscessero il proprio posto e si assumessero le proprie responsabilità, in

ubbidienza alle direttive luminose espresse dagli insegnamenti che vengono dal pulpito,

noi vedremmo ovunque un "popolo zelante in buone opere", ordinato, compatto e pronto a

dare una testimonianza luminosa di saggezza e di equilibrio alla gloria di Dio. COLLABORARE CON LUI NEL SERVIZIO DEL

SIGNORE

 

Molti si lamentano, perché il pastore accentra tutte le attività della chiesa in se

stesso, ma non so quanti ancora di questi si sono domandati il perché di questa sua

attitudine. L’esperienza mi ha insegnato che, quasi sempre, il pastore "accentratore" è

stato costretto a questa posizione da un popolo, che non è disposto ad eseguire o ad

eseguire scrupolosamente il servizio del Signore. Un servo, che sente bruciare lo zelo di

Dio nel proprio cuore, spesso, è indotto a fare quello che altri dovrebbero fare, ma che

purtroppo non fanno.

Forse la legittimità di questa posizione è discutibile, ma indubbiamente essa è

spiegata dalla situazione illustrata, che, se non giustifica pienamente il pastore nel

compimento di opere, che non gli sono state espressamente "preparate" da Dio, non

giustifica neanche il popolo infedele, che doveva compierle e non le ha compiute.

Purtroppo, molti condannano il pastore, che fa tutto, ma non sono però disposti a fare

qualche cosa, per impedire che "uno solo" debba prendersi cura della pulizia e della

manutenzione dei locali, dell’amministrazione della cassa, delle visite, della cura degli

ammalati, delle assistenze, della Scuola Domenicale, dell’attività evangelistica. .. e poi

anche della "preghiera e della Parola" (Atti 6:4).

Io vorrei conoscere, alla luce di Dio, quello che potrei fare io e vorrei manifestare la

mia disposizione ed il mio entusiasmo verso l’opera, che potrebbe rendermi collaboratore

del mio pastore nel servizio, anche umile, dell’Evangelo. Non m’importerebbe il genere di

lavoro, grato od ingrato, palese o segreto, perché vorrei semplicemente impedire che il

mio pastore fosse costretto a fare quel che potrei e dovrei fare io.

Oggi il numero dei sordi è aumentato e specialmente, quando sono rivolti appelli

concernenti compiti senza onori, pochi mostrano di avere udito, ma io vorrei avere gli

orecchi ed il cuore aperti, per essere sensibile ad ogni appello, che fosse rivolto alla mia

coscienza affinché il mio pastore sapesse che almeno uno sarebbe sempre pronto nel

servizio di Dio per la chiesa e per il mondo. Con una ramazza in mano per le pulizie della

sala o con dei trattati da distribuire, presso il letto di un ammalato o in visita in una casa

affranta dal dolore, davanti ad una scrivania, per scrivere lettere o davanti ad un gruppo di

ragazzi come monitore... mi sentirei sempre un servo di Dio vicino al mio pastore. SALVAGUARDARE LA SUA PERSONALITÀ

DA INFIDI ATTACCHI.

 

È stato detto che, per distruggere l’equilibrio e l’ordine di una famiglia, è sufficiente

demolire l’autorità del padre ed è stato anche aggiunto che, per distruggere l’equilibrio e

l’ordine di una comunità, basta intaccare la personalità e l’autorità del pastore. Per questo

motivo l’inferno suggerisce i più diversi metodi per far perdere stima e rispetto a coloro che

sono stati chiamati da Dio, per essere conduttori del popolo.

Il mezzo più comune suggerito dal tentatore è costituito dalla maldicenza, che

quando è esercitata con malefica abilità, riesce a fermare e neutralizzare l’opera del

pastore, forse più di qualsiasi altra cosa, perché allontana la comunità da lui e la rende

indifferente od ostile al suo ministerio. Non sono pochi i qualificati... cristiani, che

raccolgono l’invito del diavolo per "sparlare" del proprio pastore e, generalmente, fra

costoro non mancano mai i difensori di una giustizia, concepita sotto il profilo di una

legalità arida e crudele.

D’altronde, trovare motivi di maldicenza non è difficile, perché, come ho detto al

principio, il pastore non è perfetto e non è infallibile; sbaglia come gli altri e come gli altri

deve perfezionare il proprio carattere, ancora lontano da quello del Maestro. Iddio lo ha

costituito pastore, non perché lo ha trovato "perfetto", ma perché ha trovato nel suo cuore

la disposizione e la consacrazione richieste per l’opera del ministerio.

Ma, ripeto, difetti ed imperfezioni non mancano nella vita del pastore e non mancano

nemmeno nel seno della sua casa e della sua famiglia. Queste lacune dovrebbero essere

"comportate" nella carità cristiana e, caso mai, dovrebbero essere affrontate con

franchezza nell’esercizio della comunione fraterna. Anche un pastore può avere bisogno di

esortazione e di consiglio e ogni fratello può, con amore sincero, esprimere queste cose al

proprio pastore.

Il tentatore, invece, suggerisce di tacere davanti al pastore e di parlare o sparlare di

lui dietro le spalle, suggerisce, come mettere in evidenza i suoi errori, le sue imperfezioni,

forse, insegna il modo di ingigantire le cose, oppure di far dire tutto quel che è male e far

tacere tutto quel che è bene. Non è "maldicenza" riferire il vero, non è peccato difendere la

giustizia e far conoscere le cose che devono essere conosciute". Frasi come queste si

odono continuamente nei circoli dei maldicenti, che sembrano essere i soli difensori della

verità; essi sembrano ignorare che tutto quel che viene fatto o detto, per diminuire

l’autorità del ministerio, rappresenta un grave peccato davanti a Dio e nei confronti della

chiesa.

Le cose che i Corinti dicevano di Paolo erano vere, almeno in parte; quello che

Aronne e Maria dissero di Mosè corrispondeva alla realtà, ma l’opera dei primi e dei

secondi è stigmatizzata dalla Scrittura, come attività deleteria svolta, per rovinare l’opera

del Signore. Quando un servitore di Dio è ritrattato, come incapace, indegno, disonesto;

quando il suo ministerio è descritto con le tinte più fosche e con i termini più dispregiativi,

difficilmente può ancora espletare il proprio servizio efficacemente nel seno della chiesa.

Le sue parole potranno tutto al più suscitare sarcasmi e raccogliere sorrisetti e le sue

iniziative ed i suoi programmi potranno soltanto essere seguiti dall‘indifferenza o dalle reazioni violente. Nessuno o pochi ascolteranno le sue parole, le sue esortazioni, le sue

riprensioni, ma molti saranno pronti a dire più o meno apertamente: "Medico, cura te

stesso e la tua famiglia! "

Se io avessi un pastore, non vorrei rendermi complice dell’opera demolitrice dei

maldicenti, anzi, vorrei essere pronto a mostrare un viso sdegnoso a tutti coloro che

vorrebbero farmi ascoltare le loro parole velenose.

Vorrei che il mio pastore avesse una vita santa ed una famiglia ordinata e, perciò,

cercherei di essere al suo fianco con il mio affetto fraterno, per incoraggiarlo e al momento

opportuno consigliarlo, ma mi guarderei bene dallo spiare la sua vita o la sua casa, per

scoprire l’errore da mettere in mostra. Non vorrei ascoltare parole di maldicenza e non

vorrei mai pronunciarle, anzi, quando sentissi circolare qualche voce negativa nei confronti

del pastore, cercherei di individuarne l’origine per andare dal fratello o dalla sorella, che

hanno promosso la cosa ed invitarli a venire con me dal servo del Signore, per parlare con

lui affettuosamente, affinché gli sbagli fossero corretti e gli equivoci chiariti.

Si, vorrei che il mio pastore fosse sempre amato e stimato da tutti e nessuno

perdesse la benedizione del suo ministerio. Senza farmi difensore del male o sostenitore

dell’ingiustizia, cercherei di mettere in risalto il valore della unzione divina e quindi della

"chiamata" di Dio. A coloro che sparlassero del pastore consiglierei di pregare per lui e,

possibilmente, di parlare con lui, per chiarire, chiedere e, quando necessario, consigliare

ed esortare. PREGARE PER LUI.

 

Ho constatato che, nel seno delle comunità, si prega raramente per il pastore e,

quando si prega, la richiesta raccoglie pochi "amen" da parte dei fedeli. Partendo da

questa constatazione, oso concludere, e spero di sbagliarmi, che anche nelle case

cristiane si prega poco per i conduttori; forse c’è indifferenza o forse molti pensano che un

pastore non ha bisogno delle preghiere innalzate per lui: è abbastanza forte, e può andare

avanti da solo.

Invece la storia cristiana, anche recentissima, c’insegna che il modo più sicuro, per

sorreggere le braccia di un pastore, è proprio quello di pregare per lui.

Quando un servo di Dio sale sul monte del servizio, ha bisogno, come ebbe bisogno

Mosè, di anime pie, pronte ad essere al suo fianco e, perciò anche oggi sono necessari

novelli Aronne e volenterosi Hur, che sappiano costituirsi collaboratori di coloro che sono

impegnati in un servizio di maggiore responsabilità.

Se avessi un pastore, vorrei pregare regolarmente per lui, ma soprattutto vorrei fare

della mia intercessione un mezzo d’autentica comunione con lui. Non vorrei accontentarmi

di pronunziare frettolosamente il suo nome, inserendolo meccanicamente in un elenco di

altri nomi, forse pronunziati altrettanto frettolosamente, anzi vorrei fare una richiesta

specifica e separata per la sua persona e per il suo ministerio.

Io credo che, consacrare una preghiera di intercessione ai bisogni del proprio

pastore, sia altamente efficace, almeno, più efficace della richiesta gettata nel cumulo

spesso troppo grande, di richieste, qualche volta generiche e qualche volta non "sentite".

È inutile pronunciare il nome del pastore in orazione, se non si chiede qualcosa che si

vuole realmente ottenere. Bisogna saper "combattere" in preghiera, bisogna sapere

valorizzare quell’assistenza, che viene dall’Alto e che rende veramente potente

l’intercessione e la richiesta dei santi.

La preghiera, dedicata fedelmente alle necessità del ministerio e alla persona del

pastore, alimenta l’amore sincero per questi e perciò vorrei essere fedele nell’esercizio del

mio compito di cristiano, anche, per impedire a me stesso di diventare insensibile ed

indifferente verso il mio pastore. La comunione spirituale si concretizza su questo piano ed

io vorrei avere sempre ed avere realmente comunione col mio pastore.

Ma, come ho già detto, la preghiera produce ricchezze, che superano quella della

sola comunione, perché per essa il ciclo si apre e le benedizioni celesti discendono

copiose. Ho udito e letto testimonianze preziose su questo soggetto e tutte mi hanno

concordemente insegnato, che un pastore riceve sempre aiuto validissimo

dall’intercessione, che i fedeli umiliano a Dio per lui.

Molti grandi predicatori del più lontano o recente passato hanno affermato che il loro

messaggio era semplicemente l’espressione o la "misura" delle preghiere innalzate, forse

nel segreto, dai più umili servi del Signore.

Il pastore dal pulpito e i credenti dal segreto delle loro camerette di preghiera hanno,

uniti, realizzato un incontro con Dio ed hanno esperimentato l’assistenza dello Spirito di

Dio. Da questa autentica comunione è scaturita, e scaturirà sempre, la manifestazione della gloria celeste. Io non vorrei dimenticare nessuna richiesta, anzi, vorrei veramente

combattere in preghiera per la vita morale, per la vita spirituale, per la vita familiare, per il

servizio del mio pastore; anche con fatica vorrei sempre sorreggere le sue braccia davanti

a Dio per la benedizione del popolo di Dio, per la mia benedizione. ESPRIMERE LA GRATITUDINE.

 

A questo punto potrei parlare dei doveri economici, che tutti i fedeli hanno nei

confronti dei propri conduttori e, particolarmente, verso coloro che "faticano nel ministerio

della parola" e potrei ricordare l’ordine paolino: "Colui che è ammaestrato nella Parola

faccia parte d’ogni suo bene a colui che l’ammaestra"; oppure la rampogna dell’Apostolo ai

contenziosi credenti di Corinto: "Se noi vi abbiamo seminato le cose spirituali, è egli gran

cosa se mietiamo le vostre carnali?" Potrei, insomma, soffermarmi sul soggetto della

liberalità cristiana che, include largamente il particolare relativo all’assistenza dovuta a tutti

coloro, che predicano l’Evangelo e dedicano intera la propria vita nel servizio del Signore.

Preferisco, invece, trattare un aspetto marginale della questione, precisando che,

se avessi un pastore, non vorrei essere avaro verso di lui e non vorrei neanche esercitare

la mia generosità sotto la limitazione o l’ipoteca di calcoli e considerazioni aride e

maliziose. Dare deve essere, soprattutto, espressione d’amore e l’amore, oltre che

generoso, è sempre puro, benigno, pacifico, benevolente.

Ma, chiusa questa breve parentesi, aperta per precisare, torno a ripetere:

preferisco trattare un aspetto marginale della questione: quello della gratitudine espressa

in concreto. Un pastore non ha bisogno di plausi umani e di riconoscimenti sociali, ma, al

pari degli altri, ha bisogno di quell’incoraggiamento, che viene anche dalla gratitudine

espressa affettuosamente.

Possiamo rilevare, quando leggiamo le epistole di Paolo, che anche un grande

apostolo come lui, avvertiva il bisogno di quelle espressioni di affetto e di gratitudine che si

aspettava da coloro che erano stati particolare oggetto del suo servizio. Quando i Corinti,

in risposta alla sua prima epistola, gli indirizzano parole di devozione filiale, e quando i

Filippesi riescono a fargli giungere il frutto della loro generosità, Paolo si sente commosso

e profondamente incoraggiato nel servizio del Signore.

In molti paesi di educazione evangelica i credenti usano ringraziare il pastore per il

sermone predicato nella riunione di culto. Forse, questa consuetudine si è trasformata in

una vuota e fredda formalità o, forse, quest’uso può essere sempre motivo di tentazione

ad un cuore predisposto all’orgoglio, ma, sicuramente, questa norma è nata dalla

necessità di esprimere la propria riconoscenza a colui che si è reso strumento di

benedizione per la chiesa. Il pastore ha bisogno non di onori, ma di affetto, non di elogi

vani, ma di gratitudine sincera, che sia una costante conferma dell’apprezzamento dato al

suo servizio.

Io vorrei approfittare di ogni circostanza, per far sapere al mio pastore del mio

affetto per lui e della mia considerazione per il suo lavoro e per i suoi sacrifici. Le

espressioni della mia riconoscenza vorrei che fossero calde ed esplicite, affinché

potessero tradursi in un reale incoraggiamento per il suo cuore. Una parola buona, un

assenso entusiastico, una stretta di mano vigorosa, uno sguardo carico di affetto possono

dare ad un pastore la spinta, che gli è necessaria, per continuare la strada in mezzo

all’indifferenza di molti e all’incomprensione di altri. Vorrei, anche, e continuo a

prescindere intenzionalmente dal soggetto dell’assistenza, dare forma alla mia gratitudine

con quei "doni" che sono, come diceva Paolo, un "profumo soave". In determinate ricorrenze annuali, tutti abbiamo l’abitudine di gratificare coloro che

hanno prestato il proprio servizio, qualche volta umile, a nostro favore; anche questa è

un’espressione di riconoscenza che, purtroppo nella società moderna si è trasformata

largamente in un formalismo senza sentimento.

L’usanza, comunque c’insegna che è doveroso esprimere la propria gratitudine

verso coloro che lavorano per noi ed io vorrei far tesoro dì questo insegnamento,

perfettamente in armonia con le Scritture, per cogliere le più opportune occasioni a favore

del mio pastore. Qui, in modo particolare, i calcoli devono essere ignorati: non si tratta più

di assistere, di sovvenire e, come dicono prosaicamente molti, di salariare, ma si tratta

soltanto di esprimere affetto e gratitudine in forma concreta e in maniera tangibile.

Il pastore sarà beneficato sostanzialmente dal dono, ma più sostanzialmente

ancora sarà rallegrato dal. sentimento che lo ha generato, dimostrazione evidente di un

interesse vero, di un affetto sincero, di una gratitudine sentita.

Se avessi un pastore non vorrei fargli mancare la consolazione che deriva dalla

constatazione chiara che il proprio ministerio è stimato ed apprezzato ed il proprio lavoro è

seguito con attenzione e goduto con riconoscenza. Il mio dono. piccolo o grande, nelle ore

più opportune, nei momenti più adatti, vorrei che ripetesse al suo cuore qualche volta

stanco: "Coraggio fratello, perché io ti voglio bene"!

 

Fine

adorazione

Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto

(kurion ton theon sou proskunèseis kai autò monò latreuseis)

(kurion ton theon sou proskunèseis kai autò monò latreuseis)

Evangelo di Matteo 4:10

 

Giovanni Villari

L'adorazione

Tanto potrebbe dirsi su questo soggetto che rappresenta certamente l'aspetto più ineffabile della preghiera e

della vita cristiana in generale. Per sua stessa natura l'adorazione è difficilmente definibile. Essa si può, infatti,

identificare con il culto a Dio (gr. latrèuo) in senso lato, ma indica pure un momento preciso di quella parte

indispensabile di esso che è la preghiera.

Solitamente, l'adorazione è associata alla lode ed identificata con essa. In realtà, non sono esattamente la stessa

cosa. La lode indica più l'entusiasmo del ringraziamento sentito a Dio, che si manifesta particolarmente

attraverso il canto, per degli atti che Egli ha compiuto, (Esodo 15:1-11, 19) (ciò che Dio fa). L'adorazione è

soprattutto la pacata ed intensa esaltazione di Dio, riconosciuto come unico ed assoluto Signore dell'universo

(Neh. 9:6) (ciò che Dio è). In questo senso possiamo dire che, se la lode trova la sua motivazione nelle opere

di Dio, l'origine dell'adorazione sta più nella Sua stessa Persona (Mat. 2:11; 28:9,17).

Cosa significa adorazione

Il termine che si traduce con adorazione o adorare (e le sue coniugazioni) ha la sua radice nella lingua greca ed

è propriamente: προσκυνηω= proskunèo.

Il verbo greco προσκυνηω (proschiuneo) può infatti essere tradotto correttamente con adorare, supplicare,

venerare, rendere omaggio, implorare, baciare, salutare con riverenza.

Il verbo proviene da προσ pros (davanti) ed una probabile parola derivata da κυνηωkunèo (da κυων kuon = cane)

che conferisce al termine il significato di baciare, come un cane che lecca la mano del padrone.

I diversi significati pertanto sono:

1. Dirigersi verso qualcuno per baciargli la mano, come segno di riverenza;

2. Fra gli orientali, soprattutto i persiani, cadere sulle ginocchia e toccare il terreno con la fronte come

espressione di profonda riverenza;

3. Inginocchiarsi e prostrarsi per rendere omaggio (a qualcuno), sia per esprimere rispetto che per

supplicare o adorare. Usato soprattutto per indicare l'omaggio mostrato a uomini ed ad esseri di grado

superiore come ad esempio: 1) a Dio; 2) a Cristo; 3) al sommo sacerdote ebreo; 4) a esseri celesti; 5) a

Satana.

Gli orientali, davanti a re e a personaggi potenti, si prostravano e baciavano il suolo, il piede o il ginocchio in

senso di sottomissione, di rispetto, di venerazione e di omaggio.

Gli antichi, (e ancor'oggi i popoli appartenenti a civiltà pagane) facevano molti atti di adorazione, o almeno

tenevano davanti alle divinità, al cospetto dei re e dei grandi personaggi, questo atteggiamento rispettoso o

adulatorio, ad esempio cfr. Gen. 42:6.

 

Una breve traccia storica

I bassorilievi dell'Assiria e dell'Egitto confermano l'usanza di quanto espresso sin'ora, e ne spiegano anche

figurativamente le suddette etimologie.

In un bell'affresco scoperto a Tebe nella tomba egizia di un nobile dell’epoca, Sebekhétep (1420 a.C. circa),

appaiono vari emissari semiti che recano tributi in segno di sottomissione. Si distinguono i caratteristici due

atteggiamenti di venerazione o adorazione, molto comuni tra gli orientali: le due mani alzate e la prostrazione

sino a baciare la terra. Questa scena appartiene al periodo in la famiglia di Giuseppe si insediò in Egitto.

E' importante sapere che fin dai tempi di Platone (427-347a.C.), per distinguere l'adorazione tributata agli dei

vennero usati dei termini nei quali non v'era riferimento a nessun atteggiamento proprio del corpo. Le stesse

parole si riscontrano specificatamente nei "LXX" e nel N.T. per significare l'adorazione a Dio: λατρευω =

latrèuo (atto-servizio-culto di adorazione).

Qualche secolo prima della venuta di Cristo, i popoli più civilizzati, come i Greci e i Romani, caddero in

assurde e svariate forme di idolatria, e benché il popolo romano abbia sempre avuto ripugnanza per

l'adorazione ai viventi - "divus non sit, dum sit vivus" (non sia divino mentre sia vivo) - ed abbia trattato da

pag. 1 di 3 pazzo Caligola che pretendeva di essere un dio, nei suoi domini orientali e nella metropoli in decadenza,

cominciando da Domiziano che si attribuì il fastoso titolo di dominus e deus noster, venne introdotta una

forma cultuale di adulazione che sollevò presto le proteste e le satire di filosofi e scrittori dell'epoca.

La persecuzione dei cristiani presenti nell'Impero Romano prima dell’editto di Costantino (313 d.C.) era

dovuta soprattutto al rifiuto da parte di questi dell'adorazione e del culto all'imperatore. I cristiani erano pronti

a pregare per l'imperatore, secondo l'insegnamento apostolico, ma non a pregare l'imperatore. Perciò i processi

contro i cristiani non terminarono mai con l'assoluzione, salvo in casi di abiura, la quale implicava l'atto

pubblico di culto imperiale.

Fedeli adoratori di Yhawhé

Israele, in contrasto a tutti i popoli stranieri e idolatri, nonostante le sue sporadiche e purtroppo gravi cadute

nell'idolatria, contro la quale i profeti levarono sempre la loro ispirata e vivace protesta, con tenaci richiami a

ravvedimento, non tollerò mai alcuna adorazione ad alcuna persona vivente e dal periodo della cattività

babilonese, non permise neppure le prostrazioni davanti agli uomini, chiunque essi fossero.

1. Significativo è il caso di Mardocheo che per la sua fede, rifiutò nel modo più assoluto di prostrarsi

dinnanzi ad Haman, in segno di adorazione, esponendosi in tal modo al pericolo di far sterminare il

suo popolo; (Ester 3:2, 5-6).

2. Ricordiamo la vicenda dei tre giovani nella fornace ardente, fatta preparare dal re Nebucadnetsar per

coloro che non volevano servire i suoi dèi e adorare la statua d'oro che egli aveva eretta. Era palese

l'orgoglio di Nebucadnetsar, manifestato in questo atto di piena idolatria e deificazione dell'uomo.

Shadrac, Meshac e Abed-nego, furono salvati attraverso la fornace della tribolazione. Il loro gesto

non è da definire tanto eroico, quanto da uomini fedeli e "unici adoratori di Dio"; (Daniele 3:11-12,

15-18, 28).

3. Nel N.T. leggiamo di Pietro che si sottrasse alle prostrazioni di Cornelio (Atti 10:25-26).

4. Nell'Apocalisse, l'angelo, pura e semplice creatura, non permette a Giovanni alcun atto che possa

essere interpretato come adorazione, e conclude con un'esortazione ed un invito: "Adora Iddio"

(Apocalisse 22:8-9).

Quanto sangue è costato al Cristianesimo l'osservanza di questo precetto del Signore!

Gesù stesso ci ha dato la definizione più precisa del carattere della vera adorazione: «Dio è Spirito; e quelli

che l'adorano, bisogna che l'adorino in spirito e verità» (Giov. 4:24).

L'adorazione dei Magi provenienti dall'Oriente, al Re Gesù, è un episodio caratteristico del vangelo di Matteo.

(Matteo 2:1-2). Già dalla sua nascita Gesù, ancora in fasce, viene adorato e omaggiato da alcuni stranieri. La

breve narrazione di questo episodio fa allusione certamente ai passi di Isaia 60:5-6 e al Salmo 72:9-15 nei

quali Gesù viene annunciato quale Re e Signore delle nazioni.

Perchè l'adorazione

Adorare Dio è la ragione fondamentale per la quale siamo stati creati, salvati e rigenerati. L'uomo sente ciò

dentro di se; le sue esperienze nella sfera intellettuale, sentimentale, materiale, non potranno mai sostituire il

bisogno e l'appagamento primario dell'adorazione. La Bibbia mostra come l'esistenza di Adamo ed Eva non fu

più la stessa dopo che persero la comunione con Dio, a causa del peccato, perché sfuggirono lo sguardo divino

e lo ripiegarono su essi stessi. Nell'adorazione l'essere umano viene pienamente soddisfatto, poiché realizza

che quando Dio regna ed è elevato al di sopra d'ogni cosa lo rende veramente libero (II Cor.3:17-18) da tutti i

legami che lo attraggono verso il basso, e, in questa suprema libertà, è coinvolto nello splendore della maestà

divina.

Comunione calorosa e profonda

L'adorazione è un'esperienza spirituale cosciente e serena, un intimo incontro fra l'uomo ed il "Suo" Dio, in

cui Dio rimane Dio e l'uomo rimane uomo, ma nella quale, tuttavia, l'Uno si compiace nell'altro. Infatti, essa

esprime proprio questa reciprocità di affetti: l'uomo si rallegra in Dio (Habac. 3:18), Dio si rallegra dell'uomo

(Sof. 3:17), dimorando, in forza dell'opera di Cristo, nell'essere umano (I Cor. 3:16). Vi è come un fiume

spirituale che scorre, una eccelsa corrispondenza fra il Creatore e la creatura, il Redentore ed il liberato, il

Padre ed il figlio.

Adorare è dare a Dio quel che gli spetta, offrirgli la primizia dei nostri sentimenti insieme a tutto noi stessi;

è quasi far tornare a Dio quei sospiri ineffabili che Egli ha messo in noi col Suo alito (Rom. 8:26; Gen 2:7; Gb

27:3; 33:4).

pag. 2 di 3 E' un'offerta che onora Dio, corrisponde ai Suoi desideri e, allo stesso tempo, sazia l'uomo di un

impareggiabile cibo spirituale. Ci introduce, ci immerge nella conoscenza di Dio "in spirito e verità", cioè

sulla base della Sua Parola e attraverso la disposizione del nostro spirito (soffio o alito di vita).

Istanti preziosi

La vita cristiana è un cammino di fede con Dio, tuttavia per crescere bisogna anche sapersi fermare ai Suoi

piedi per contemplarLo (Sal. 95:6).

Una contemplazione tale ci trasforma, permettendoci di ricevere pensieri, propositi, sentimenti nuovi e più alti

(Filippesi 4:8). Niente quanto l'adorazione purifica il carattere e l'intera vita del credente, elevando la sua

anima ad una veduta spirituale della realtà (II Cor. 3:18).

L'adorazione è forse il momento più dolce, nobile, se così si può dire, della preghiera, quando l'uomo, svuotato

delle proprie mire egoistiche, anche se lecite, è riempito della presenza di Dio.

Non vi è più l'implorazione per il perdono, la richiesta per il nostro o l'altrui bisogno, la lotta per superare le

passioni carnali, ma la "disinteressata" ammirazione delle bellezze del Signore, l'ingresso nelle stanze

"segrete" di Dio (Sal. 5:7; 132:7), ove si gusta la Sua somma grandezza, in cui la voce del Signore imprime la

Sua ispirata Parola alla nostra vita, in modo certo e personale.

Un servizio (culto) unico e costante.

L'adorazione è un servizio unico. È il culto per eccellenza, che offriremo per l'eternità (Apoc. 15:4);

qualcosa che sorpassa la devozione, il rispetto ed il servizio pratico (pure spirituale ed importante), i quali,

oltre che a Dio, possono esser resi pure agli uomini. La creatura può anche essere ringraziata, apprezzata per le

sue qualità, ma l'adorazione può e deve essere tributata esclusivamente a Dio (Atti 10:25-26; Apoc. 19:10),

non in un vago e istintivo misticismo interiore, bensì "in spirito e verità", cioè secondo la luce e l'armonia del

perfetto insegnamento della Bibbia. D'altra parte è un privilegio concesso soltanto ai veri figliuoli, riscattati

dal sacrificio di Gesù Cristo; chi si affida alla propria giustizia non può essere un "vero adoratore" (Giov.

4:22-23).

C'è una netta differenza fra adorazione e adulazione (Sal. 66:3), tra spontaneità e formalismo, tra metodo e

genuinità.

L'adorazione non è solo uno stare in preghiera, ma una continua e dinamica disposizione del cuore verso le

meravigliose Persone di Dio: Padre – Figlio – Spirito Santo.

Essa è una santa bramosia delle esperienze più profonde nella presenza del Signore; il desiderio di essere uniti

a Lui e la volontà di realizzare senza più alcuna ombra di essere Suoi, di appartenere a Dio in modo speciale,

quale tempio per la dimora del Suo Spirito. (1Cor. 6:17);

 

Conclusione

Quando si adora "veramente", nel culto privato o nell'assemblea, il tempo passa velocemente perché la reale e

intima comunione con Dio ci distacca dalle circostanze e persino dall’inesorabile trascorrere del tempo

facendoci sentire più vicini a Lui. (cfr. Dan. 6:10-11)

Sovente l'adorazione è una voce silenziosa. Soltanto Dio può ascoltare quei sospiri rivolti a Lui dall'anima che

con devoto anelito si accosta alla maestà divina e proclama che l'Eterno è Dio! (cfr. Salmo 95)

 

A Dio sia la glori

ossa secche

 

LA VALLE DELLE OSSA SECCHE

 

 

 

Ezechiele 37:1-14: “La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi

trasportò in spirito e mi depose in mezzo a una valle piena d'ossa. Mi fece

passare presso di esse, tutt'attorno; ecco erano numerosissime sulla superficie

della valle, ed erano anche molto secche. Mi disse: «Figlio d'uomo, queste ossa

potrebbero rivivere?» E io risposi: «Signore, Dio, tu lo sai». Egli mi disse:

«Profetizza su queste ossa, e di' loro: “Ossa secche, ascoltate la parola del

Signore! Così dice Dio, il Signore, a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo

spirito e voi rivivrete; metterò su di voi dei muscoli, farò nascere su di voi della

carne, vi coprirò di pelle, metterò in voi lo spirito, e rivivrete; e conoscerete che

io sono il Signore”». Io profetizzai come mi era stato comandato; e come io

profetizzavo, si fece un rumore; ed ecco un movimento: le ossa si accostarono

le une alle altre. Io guardai, ed ecco venire su di esse dei muscoli, crescervi la

carne, e la pelle ricoprirle; ma non c'era in esse nessuno spirito. Allora egli mi

disse: «Profetizza allo spirito, profetizza figlio d'uomo, e di' allo spirito: “Così

parla Dio, il Signore: Vieni dai quattro venti, o spirito, soffia su questi uccisi, e

fa' che rivivano!”» Io profetizzai, come egli mi aveva comandato, e lo spirito

entrò in essi: tornarono alla vita e si alzarono in piedi; erano un esercito

grande, grandissimo. Egli mi disse: «Figlio d'uomo, queste ossa sono tutta la

casa d'Israele. Ecco, essi dicono: “Le nostre ossa sono secche, la nostra

speranza è svanita, noi siamo perduti!” Perciò, profetizza e di' loro: “Così parla

Dio, il Signore: Ecco, io aprirò le vostre tombe, vi tirerò fuori dalle vostre

tombe, o popolo mio, e vi ricondurrò nel paese d'Israele. Voi conoscerete che io

sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi tirerò fuori dalle vostre

tombe, o popolo mio! E metterò in voi il mio spirito, e voi tornerete in vita; vi

porrò sul vostro suolo, e conoscerete che io, il Signore, ho parlato e ho messo la

cosa in atto, dice il Signore”».

 

La valle delle ossa secche, ci porta ad affrontare un argomento d’estrema importanza per

la Chiesa di oggi: “Il risveglio”, anelito di ogni vero cristiano Salmo 85:6: “Non tornerai

forse a darci la vita, perché il tuo popolo possa gioire in te?”

La supplica del salmista echeggia nei cuori di centinaia di credenti che, nel corso dei secoli,

hanno desiderato un risveglio spirituale e l’intervento di Dio nella loro vita. Il loro desiderio

è espresso con le parole del profeta Isaia che altro non è che una supplica di risveglio

Isaia 64:1,2: “Oh, squarciassi tu i cieli, e scendessi! Davanti a te sarebbero scossi i monti. Come il fuoco accende i rami secchi, come il fuoco fa bollire l'acqua, tu faresti

conoscere il tuo nome ai tuoi avversari e le nazioni tremerebbero davanti a te”.

Il risveglio non è per coloro che sono morti nei falli e nei peccati: questi hanno bisogno di

resurrezione. Il risveglio è per il credente che si è ammalato spiritualmente o peggio si è

addormentato. Egli ha bisogno di risveglio o che sia ridata la vita alla sua condizione di

allontanato Efesini 5:14: “Per questo è detto: «Risvégliati, o tu che dormi, e risorgi dai

morti, e Cristo ti inonderà di luce».

 

LE OSSA SECCHE SI RISVEGLIANO

La valle che Ezechiele vide era piena di ossa secche, ma esse tornarono a rivivere

Ezechiele 37:1-3: “La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi trasportò in

spirito e mi depose in mezzo a una valle piena d'ossa. Mi fece passare presso di esse,

tutt'attorno; ecco erano numerosissime sulla superficie della valle, ed erano anche molto

secche. Mi disse: «Figlio d'uomo, queste ossa potrebbero rivivere?» E io risposi: «Signore,

Dio, tu lo sai».

Ma cos’è esattamente il risveglio? Risveglio è una parola che usiamo spesso. In un recente

momento di panico nell’ambito del mercato finanziario, gli agenti di cambio e le ditte di

tutto il mondo speravano e pregavano che ci fosse un risveglio nel mercato. Quando le

squadre sportive perdono, i loro allenatori e i fans sperano che ci sia un risveglio negli

sforzi delle loro squadre. Quando i genitori stanno accanto al loro figlio che è in coma,

sperano e pregano che ci sia un risveglio. La maggior parte di noi conosce il significato

della parola, ma allora perché siamo così confusi sulle sue implicazioni spirituali? Alcune

persone hanno confuso il risveglio con una grande quantità di attività spirituale nella

chiesa; altri lo hanno confuso con l’evangelizzazione o uguagliato all’entusiasmo. Il

risveglio non è altro che un soffio del cielo che Dio manda quando il Suo popolo lo cerca

con tutto il cuore 2Cronache 7:14: “Se il mio popolo, sul quale è invocato il mio nome, si

umilia, prega, cerca la mia faccia e si converte dalle sue vie malvagie, io lo esaudirò dal

cielo, gli perdonerò i suoi peccati, e guarirò il suo paese”.

È un cambiamento di condizione, di posizione e di attitudine, da parte dei credenti. Si

realizza così che nel risveglio la fede dei cristiani è rinnovata, la coscienza si desta perché

illuminata dalla Parola di Dio. È riconoscere la propria condizione di infedeltà e di bisogno.

Quando nasce un risveglio? Il risveglio non ha luogo a meno che non riconosciamo il

nostro peccato e il disperato bisogno che abbiamo come cristiani di essere a posto con

Dio. Questa era la condizione del profeta Isaia, sacerdote nel tempio, eppure, nonostante

il suo servizio, aveva bisogno di un risveglio nella sua vita Isaia 6:1-8: “Nell'anno della

morte del re Uzzia, vidi il Signore seduto sopra un trono alto, molto elevato, e i lembi del

suo mantello riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini, ognuno dei quali

aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi, e con due volava.

L'uno gridava all'altro e diceva: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti! Tutta la

terra è piena della sua gloria!» Le porte furono scosse fin dalle loro fondamenta dalla voce

di loro che gridavano, e la casa fu piena di fumo. Allora io dissi: «Guai a me, sono

perduto! Perché io sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle

labbra impure; e i miei occhi hanno visto il Re, il Signore degli eserciti!» Ma uno dei

serafini volò verso di me, tenendo in mano un carbone ardente, tolto con le molle

dall'altare. Mi toccò con esso la bocca, e disse: «Ecco, questo ti ha toccato le labbra, la tua

iniquità è tolta e il tuo peccato è espiato». Poi udii la voce del Signore che diceva: «Chi

manderò? E chi andrà per noi?» Allora io risposi: «Eccomi, manda me!»

Notate che fino ad allora, Isaia non aveva mai visto la gloria di Dio, ma da quel momento

in poi la sua vita cambiò profondamente: questo è il vero risveglio. Gli antichi definirono il risveglio nel seguente modo: “Un nuovo afflusso di vita divina in un corpo spirituale che

rischia di diventare un cadavere”. Samuel Chadwick pregò che: “Le nostre chiese non

fossero governate dall’uomo, ma da Dio, perché un ministero che ha una preparazione

universitaria, ma non è riempito dallo Spirito non produrrà altro che grandi teste e cuori

vuoti”.

Non c’è da stupirsi che tutti gli scrittori, quando descrivono il risveglio, sostengano: “Che è

un’influenza divina che sembra pervadere la terra. I cuori degli uomini sono stranamente

riscaldati da una potenza che è versata in modi non comuni”. Duncan Campbell dice:

“Quando parlo di risveglio, non intendo un periodo di intrattenimento religioso, con folle

che si riuniscono per ascoltare e godersi una serata di brillante musica gospel; non intendo

una crociata evangelistica ben organizzata con molte conversioni. Il risveglio è piuttosto il

fatto che Dio vada tra le persone, le quali avvertono la Sua presenza, la Sua santità e

realizzano il bisogno di camminare in silenzio davanti a Lui” (I risvegli di Lewis 1949-

1953).

Risveglio! La parola stessa provoca una risposta del cuore in molte persone: Per alcuni è

un bisogno, per altri un desiderio nostalgico che possa accadere di nuovo. Edwin Orr,

parlando di un risveglio, dice: “Un risveglio evangelico è un movimento dello Spirito Santo

che porta in risveglio del Cristianesimo del Nuovo Testamento nella chiesa e la comunità

ad essa collegata; un tale risveglio potrebbe iniziare con un individuo, o potrebbe

influenzare un maggior numero di credenti, o potrebbe smuovere una congregazione, o le

chiese di una città o un quartiere o l’intero corpo di credenti in un paese o continente o

persino nel mondo intero. In ciascun caso la chiesa risvegliata è spinta a impegnarsi

nell’evangelizzazione, nell’insegnare la fede, in azioni sociali e nella giustizia; un tale

risveglio potrebbe esaurirsi in tempo breve o potrebbe durare una vita intera; potrebbe

venire in vari modi, anche se sembra esserci un modello comune a tutti questi movimenti

dello Spirito Santo” (The Eager Feet).

 

 

NECESSITÀ DEL RISVEGLIO

Oggi vi è la necessità del risveglio, la stessa necessità di quelle ossa nella valle che il

profeta Ezechiele vide: esse dovevano tornare a rivivere Ezechiele 37:1-5: “Mi disse:

«Figlio d'uomo, queste ossa potrebbero rivivere?» E io risposi: «Signore, Dio, tu lo sai».

Egli mi disse: «Profetizza su queste ossa, e di' loro: “Ossa secche, ascoltate la parola del

Signore! Così dice Dio, il Signore, a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e

voi rivivrete”.

L’indifferenza e l’infedeltà caratterizzano i credenti; c’è freddezza e formalismo nelle

chiese: c’è bisogno di un risveglio! L’uomo non è in grado di cambiare la situazione, Dio ha

potere sovrano ed è in grado di portare un cambiamento radicale nel Suo popolo.

Leonard Ravenhill, nel suo libro Sodom had No Bible (Sodoma non aveva una Bibbia), dice

con forza dinamica: “Ritengo che il motivo principale per cui non abbiamo un risveglio ai

nostri giorni è che ci accontentiamo di vivere senza di esso. Benedizioni molto inferiori ci

rendono felici, come: una maggiore frequenza alle riunioni, offerte maggiori, una chiesa

più organizzata, promozioni migliori. Ma vi avverto che il diavolo e l’inferno non temono

nessuna di queste cose. Solo il risveglio scuote il regno del diavolo, spezza il suo potere e

lascia andare i suoi prigionieri. Solo dal risveglio può uscire un esercito di uomini che

portino pesi enormi senza mormorare e che rischiano la propria vita per la causa di Dio”.

Suggerirei che noi abbiamo bisogno di risveglio quando abbiamo:

 

1. Perso il nostro primo amore

Quando si perde il sentimento, la relazione fra due persone tende a paralizzarsi. Il

credente che ha perso il primo amore per il Signore, entra nella valle delle ossa secche.

Non è questo il rimprovero che Gesù mosse alla Chiesa di Efeso? Apocalisse 2:1-5:

“«All'angelo della chiesa di Efeso scrivi: Queste cose dice colui che tiene le sette stelle

nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d'oro: Io conosco le tue opere, la

tua fatica, la tua costanza; so che non puoi sopportare i malvagi e hai messo alla prova

quelli che si chiamano apostoli ma non lo sono e che li hai trovati bugiardi. So che hai

costanza, hai sopportato molte cose per amor del mio nome e non ti sei stancato. Ma ho

questo contro di te: che hai abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei

caduto, ravvediti, e compi le opere di prima; altrimenti verrò presto da te e rimoverò il tuo

candelabro dal suo posto, se non ti ravvedi”.

Ti ricordi come ti sentivi quando sei stato salvato? Tutto nella vita cristiana era eccitante.

Amavi gli inni, i canti, la predicazione della Parola di Dio e l’evangelizzazione ti

entusiasmava. Com’eri contento di poter fare qualcosa per Gesù! Ti piaceva leggere la sua

Parola, pregare, avere comunione con i credenti. E oggi? Senti ancora lo stesso

entusiasmo, la gioia nei confronti della Parola e della preghiera? Quel primo amore è

morto e il tuo cristianesimo è diventato un luogo comune? Riconoscere il tuo bisogno

ristorerà la tua visione e ti metterà sulla giusta strada di un risveglio.

 

2. Perso il nostro peso per le persone non salvate

Il comando di Gesù per noi è chiaro Marco 16:15,16: “E disse loro: «Andate per tutto il

mondo, predicate il vangelo a ogni creatura. Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà

salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato”.

L’apostolo Paolo si proponeva come obiettivo primario l’evangelizzazione 1Corinzi 9:16-

18: “Perché se evangelizzo, non debbo vantarmi, poiché necessità me n'è imposta; e guai

a me, se non evangelizzo! Se lo faccio volenterosamente, ne ho ricompensa; ma se non lo

faccio volenterosamente è sempre un'amministrazione che mi è affidata. Qual è dunque la mia ricompensa? Questa: che annunziando il vangelo, io offra il vangelo gratuitamente,

senza valermi del diritto che il vangelo mi dà”.

È difficile capire come si possa vivere in un mondo così claudicante e pieno di miseria,

odio, agitazione ed essere felici. Come possiamo essere così preoccupati delle nostre vite

mentre tutt’intorno a noi le persone stanno morendo? In qualche modo abbiamo

compromesso la nostra fede e la nostra testimonianza ed il nostro cristianesimo è

diventato edonista, con enfasi sulla nostra gioia e la nostra felicità. Tempo fa vedevo una

ragazza, costringere con la forza il padre anziano, ad assumere uno sciroppo. Gli ha aperto

con forza la bocca, gli ha infilato il cucchiaio e il farmaco è sceso direttamente nello

stomaco. Perché lo ha fatto? Per amore, perché quel farmaco era per lui vitale, non

l’avrebbe fatto morire. Se non ci preoccupiamo di chi ci sta attorno e sta per morire e per

giungere all’inferno, abbiamo bisogno di un potente risveglio che scuota le nostre

coscienze e ci dia la visione delle anime perdute. Il credente risvegliato, piazza la sua

tenda alle soglie dell’inferno per strappare quante più anime al fuoco eterno.

 

3. Perso il nostro interesse per la preghiera

Se abbiamo perso interesse per la preghiera, abbiamo bisogno di un risveglio. La Chiesa

primitiva ha sempre pregato Atti 3:1: “Pietro e Giovanni salivano al tempio per la

preghiera dell'ora nona”.

Il risveglio si caratterizza con l’alto solaio che non è abbandonato, ma anche le

“camerette” sono occupate. La preghiera come adorazione, lode, intercessione, è al centro

della vita cristiana. Dio dice molto chiaramente che vuole che il Suo popolo preghi Luca

11-13: “Chiedete con perseveranza, e vi sarà dato; cercate senza stancarvi, e troverete;

bussate ripetutamente, e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, chi cerca trova, e

sarà aperto a chi bussa. E chi è quel padre fra di voi che, se il figlio gli chiede un pane, gli

dia una pietra? O se gli chiede un pesce, gli dia invece un serpente? Oppure se gli chiede

un uovo, gli dia uno scorpione? Se voi, dunque, che siete malvagi, sapete dare buoni doni

ai vostri figli, quanto più il Padre celeste donerà lo Spirito Santo a coloro che glielo

chiedono!»

Gesù insegnò ai primi cristiani a pregare. Essi trascorsero dieci giorni prima della

Pentecoste in preghiera. Dopo la Pentecoste continuarono a pregare quotidianamente:

capirono che ci voleva più preghiera. Quando c’era un bisogno speciale, ad esempio

quando Pietro era in prigione, essi pregavano. Non c’è da meravigliarsi che il Vangelo sia

esploso sul mondo pagano in modo che nel corso di una generazione l’intero mondo

conosciuto fu evangelizzato!

In un incontro di preghiera a Worcester che stava conducendo De Vries, il cielo si aprì e

portò tutti a pregare insieme. Nel sentire questo, Andrew Murray corse all’entrata della

chiesa principale e trovò tutto il gruppo impegnato in preghiera simultaneamente e De

Vries ad un tavolo in lacrime. Murray gridò: “Smettetela… Silenzio, questa è confusione. Io

sono il vostro responsabile mandato da Dio… Silenzio”. Nessuno gli fece minimamente

caso e tutti continuarono a pregare. Ognuno sembrava così appesantito dal peso dei

propri peccati che continuavano a chiedere a Dio perdono e purificazione con un

intollerabile senso di colpa, peccato e vergogna. Murray iniziò a cantare un salmo, ma la

preghiera continuò. Ancora una volta urlò, chiese ordine mentre De Vries, che aveva

sperimentato il soffio di Dio dall’inizio, non solo era convinto che era un soffio di risveglio,

ma rimase in preghiera così come stavano facendo i giovani. Andrew Murray continuò ad

essere preoccupato dal fatto che pregassero simultaneamente fino a quando uno straniero

appena tornato dall’America andò in punta di piedi davanti e gli sussurrò: “Per favore sta attento a quello che fai perché è lo Spirito Santo che è all’opera qui, così come lo è nel

risveglio Americano”.

La Sig.ra Murray, scrivendo a sua madre, disse:

“Alcune persone stanno venendo semplicemente per vedere cosa sta succedendo e vanno

via cambiati e benedetti. È una cosa solenne vivere in una comunità in un momento come

questo, eppure credo che Dio farà anche di più. Ieri sera la chiesa era di nuovo piena ed

Andrew ha predicato sull’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Circa 20 persone

sono venute avanti chiedendo di essere salvate e molti altri per ricevere aiuto spirituale;

sentiamo la potenza e la presenza di Dio su di noi in modo potente. Il Suo Spirito è

sicuramente sopra di noi” (J Edwin Orr, Risvegli Evangelici in Africa).

Cinquanta giovani di quella prima ondata di risveglio, entrarono nel ministero e nel campo

missionario. Cosa sta dicendo Dio a noi oggi?

 

4. Perso l’interesse per la Parola

Quando la Parola di Dio ha perso il posto centrale nella nostra vita, abbiamo bisogno di

risveglio. Solo con un vero risveglio, la Parola trascurata e dimenticata torna in onore

Neemia 8:2-6: “Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge

davanti all'assemblea, composta di uomini, di donne e di tutti quelli che erano in grado di

capire. Egli lesse il libro sulla piazza che è davanti alla porta delle Acque, dalla mattina

presto fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne, e di quelli che erano in

grado di capire; e tutto il popolo tendeva l'orecchio, per sentire il libro della legge. Esdra,

lo scriba, stava sopra un palco di legno, che era stato fatto apposta; accanto a lui stavano,

a destra, Mattitia, Sema, Anania, Uria, Chilchia e Maaseia; a sinistra, Pedaia, Misael,

Malchia, Casum, Casbaddana, Zaccaria e Mesullam. Esdra aprì il libro in presenza di tutto il

popolo, poiché stava nel posto più elevato; e, appena aperto il libro, tutto il popolo si alzò

in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen»,

alzando le mani; e s'inchinarono, e si prostrarono con la faccia a terra davanti al Signore”.

La Parola diventa un libro prezioso e un cibo per l’anima nostra e nasce nuovamente nel

cuore il desiderio di osservarla. La Parola di Dio cessa di essere un libro di regole da

osservare per diventare un forziere ripieno di perle preziose Salmo 119:60,123: “Senza

indugiare, mi sono affrettato a osservare i tuoi comandamenti… Si spengono i miei occhi

desiderando la tua salvezza e la parola della tua giustizia”.

 

5. Perso il concetto di santificazione

Il nostro pensiero sulla santificazione, é più o meno questo:

 Dio ci chiede troppo.

 Solo pochi la raggiungono.

 Tutti la raggiungono in cielo.

Questi concetti finiscono per privarci della santificazione e ci portano sulla strada del

compromesso. Attraverso il risveglio, Dio ci fa vedere che la santificazione è una

condizione indispensabile per essere figli di Dio:

 2Corinzi 7:1: “Poiché abbiamo queste promesse, carissimi, purifichiamoci da

ogni contaminazione di carne e di spirito, compiendo la nostra santificazione nel timore di

Dio”.

 Romani 6:22: “Ma ora, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per frutto la

vostra santificazione e per fine la vita eterna”.

 1Tessalonicesi 4:7: “Infatti Dio ci ha chiamati non a impurità, ma a

santificazione”. Senza la santificazione nessuno vedrà Dio Ebrei 12:14: “Impegnatevi a cercare la pace

con tutti e la santificazione senza la quale nessuno vedrà il Signore”.

Il risveglio mette la santificazione al posto che gli compete, cioè al primo posto, glorifica la

santità di Dio in mezzo al suo popolo. Tanto più la Spirito Santo è all’opera, tanto più il

peccato é bandito dai cuori.

 

 

 

QUAL È LO SCOPO DEL RISVEGLIO?

A. Abbandonare uno stato di torpore e d’indolenza

L’esempio classico è quello del figlio prodigo Luca 15:17: “Allora, rientrato in sé, disse:

“Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame”!

 

B. Rompere con il peccato

Il Risveglio è una rottura col mondo. Di qui il monito di Gesù a ricordarci della moglie di

Lot o dell’episodio di Dina 1Giovanni 2:15-17: “Non amate il mondo né le cose che sono

nel mondo. Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è nel

mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita,

non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa

la volontà di Dio rimane in eterno”.

 

C. Avere la visione di un’umanità perduta

Nelle nostre città migliaia di persone stanno morendo e sono senza freno semplicemente

perché noi, come cristiani, non abbiamo la visione delle loro anime destinate all’inferno.

Comodi nei nostri piccoli nidi, a nostro agio in mezzo a ciò che ci circonda, iper - nutriti,

teniamo le nostre riunioni, predichiamo i nostri sermoni e frequentiamo gli studi pensando

poco alle folle che periscono. Ogni secolo ha avuto un risveglio perché le persone che

vivono ai giorni dell’apostasia hanno avuto una visione chiara.

 

D. Vivere conformemente alla volontà di Dio.

Leonard Ravenhill dice: “La tragedia del nostro tempo è che noi abbiamo troppi morti sul

pulpito che predicano troppi sermoni morti a troppe persone morte”. Lo scopo di un vero

risveglio è vivere veramente e conformemente alla volontà di Dio. È sufficiente guardare

una concordanza biblica per vedere quante volte Dio sfida la nostra freddezza Apocalisse

3:1-3: “«All'angelo della chiesa di Sardi scrivi: Queste cose dice colui che ha i sette spiriti

di Dio e le sette stelle: Io conosco le tue opere: tu hai fama di vivere ma sei morto. Sii

vigilante e rafforza il resto che sta per morire; poiché non ho trovato le tue opere perfette

davanti al mio Dio. Ricordati dunque come hai ricevuto e ascoltato la parola, continua a serbarla e ravvediti. Perché, se non sarai vigilante, io verrò come un ladro, e tu non saprai

a che ora verrò a sorprenderti”.

Sembra che noi come chiesa ci siamo allontanati dalla perfetta volontà di Dio, tuttavia

quando avviene un risveglio e la chiesa di Dio riceve un soffio dal cielo, tutto ciò che è

carne è spazzato via e noi ci conformiamo ancora una volta alla volontà di Dio e di

conseguenza mettiamo sul trono Cristo. Durante il risveglio di Wesley del 18° secolo, uno

scalpellino chiamato John Nelson, che lavorava nello Yorkshire, tornò a casa e trovò che

sua moglie si era convertita ad un incontro di John Wesley. La picchiò con rabbia e la

insultò. Quando non aveva più la forza di picchiarla, le ricordò che lui era un membro della

chiesa e che era un religioso. Poi prese un lungo coltello d macellaio e con una sorta di

ossessione e pazzia inseguì Wesley per tentare di ucciderlo. Girò tutta l’Inghilterra

cercandolo e finalmente lo trovò nel comune di Kensington a Londra. Infilandosi tra la folla

di persone che era riunita per ascoltare Wesley, la sua mano prese il coltello. C’era un tale

spirito di convinzione all’incontro che non appena Wesley lo guardò negli occhi, non

conoscendo l’uomo o le sue intenzioni, gli disse: “Tu sei quell’uomo”. John Nelson cadde a

terra come se fosse stato colpito e gridò: “Dio abbi pietà di me, peccatore”. Non solo si

convertì, ma divenne il primo dei predicatori laici di Wesley ad andare su e giù per il paese

predicando il Vangelo. La sua intera vita cambiò per conformarsi alla volontà di Dio e non

alla sua natura.

Lo scopo del risveglio è di conformarsi alla volontà di Dio, e perciò di mettere sul trono

Cristo, ma anche diventare coerenti nella nostra vita cristiana.

 

E. Essere coerenti

Qual è l’opposto di coerenza? Non è forse l’ipocrisia? E l’ipocrisia non è falsità? Non è forse

vero che chi ama e pratica la menzogna andrà nello stagno di fuoco? Apocalisse 22:15:

“Fuori i cani, gli stregoni, i fornicatori, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la

menzogna”.

Non erano ipocriti i religiosi del tempo di Gesù? Il Signore condannò duramente la loro

ipocrisia:

- Matteo 6:2: “Quando dunque fai l'elemosina, non far sonare la tromba davanti a te,

come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere onorati dagli uomini. Io vi

dico in verità che questo è il premio che ne hanno”.

- Matteo 6:5: «Quando pregate, non siate come gli ipocriti; poiché essi amano pregare

stando in piedi nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini. Io vi

dico in verità che questo è il premio che ne hanno”.

- Matteo 6:16: «E quando digiunate, non abbiate un aspetto malinconico come gli

ipocriti; poiché essi si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. Io vi

dico in verità: questo è il premio che ne hanno”.

- Matteo 7:3-5: “Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio di tuo fratello, mentre non

scorgi la trave che è nell'occhio tuo? O, come potrai tu dire a tuo fratello: “Lascia che io ti

tolga dall'occhio la pagliuzza”, mentre la trave è nell'occhio tuo? Ipocrita, togli prima dal

tuo occhio la trave, e allora ci vedrai bene per trarre la pagliuzza dall'occhio di tuo

fratello”.

- Matteo 15:7-9: “Ipocriti, ben profetizzò Isaia di voi quando disse: “Questo popolo mi

onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me. Invano mi rendono il loro culto,

insegnando dottrine che sono precetti d'uomini”».

Il risveglio toglie l’ipocrisia e mette verità.

Prima del risveglio del 1904, il Galles era una terra malata. Le chiese erano vuote. I

credenti erano scoraggiati. Gli incontri di preghiera non erano frequentati. L’alcoolismo ed il crimine avevano la meglio. Sembrava che il cristianesimo dovesse essere seppellito

definitivamente quando Dio iniziò a ravvivare i cuori di alcuni credenti. Il risveglio si diffuse

come un cespuglio infuocato. Su una rivista era scritto: “Il quartiere è soggetto ad una

straordinaria forza spirituale che non mostra segni di rilassamento; le chiese sono unite in

una solida falange; gli incontri di preghiera sono così affollati che i luoghi d’incontro per

l’adorazione non sono abbastanza capienti da ospitare tutti. Alcuni incontri durano otto ore

senza alcuna pausa alla preghiera, alla lode e al canto; dalle labbra delle persone più umili

e minime scaturiscono richieste che scuotono l’intero essere e il rifugio di tutte le cose

terrene sembra essere rotto. Tutto questo è in toni silenziosi e riverenti, l’argomento di

ogni conversazione” (R. B. Jones: Cieli Aperti).

Ciò non parla forse di una testimonianza cristiana coerente? Il conformarsi alla volontà di

Dio mette Cristo sul trono, smaschera il peccato, convince i peccatori e produce nei

credenti il desiderio di raggiungere i perduti.

 

L’ATTITUDINE PER IL RISVEGLIO

a. Preghiamo per un risveglio.

Discussioni, dibattiti e commissioni sulla preghiera non porteranno a niente se non

preghiamo. Potremmo iniziare in piccolo, ma preghiamo Zaccaria 10:1: “Chiedete al

Signore la pioggia nella stagione di primavera! Il Signore che produce i lampi darà loro

abbondanza di pioggia, a ciascuno erba nel proprio campo”.

Incoraggiamo altri a pregare. Riuniamo persone con uno stesso atteggiamento che siano

disposte a pagare il prezzo per il risveglio Atti 1:14: “Tutti questi perseveravano concordi

nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù e con i fratelli di lui”.

 

b. Restringiamo la nostra visione

In altre parole non “pregate per il mondo”. Iniziamo con la nostra vita, preghiamo per noi,

preghiamo perchè anche noi siamo nella valle delle ossa secche. Preghiamo affinché Dio

mandi la Sua acqua sulla nostra vita che è diventata come terra arida Isaia 44:1-3:

“«Ora ascolta, Giacobbe, mio servo, o Israele, che io ho scelto! Così parla il Signore che ti

ha fatto, che ti ha formato fin dal seno materno, colui che ti soccorre: Non temere,

Giacobbe mio servo, o Iesurun che io ho scelto! Io infatti spanderò le acque sul suolo

assetato e i ruscelli sull'arida terra; spanderò il mio spirito sulla tua discendenza e la mia

benedizione suoi tuoi rampolli; essi germoglieranno come in mezzo all'erba, come salici in

riva a correnti d'acque”.

 

c. Prendiamo Dio in parola

Studiate la Parola di Dio e dichiarate le sue promesse. Quando Dio dice che farà qualcosa,

accettatelo e contateci. È qui che inizia il risveglio. Leonard Ravenhill, nel suo libro “Why

revival tarries” (Perché il risveglio tarda a venire), dice: “Uno di questi giorni qualche

anima semplice prenderà in mano la Parola di Dio e le crederà, così in mezzo a noi ci sarà

un risveglio e gli altri tra di noi saranno imbarazzati”.

I risvegli si sono verificati perché delle persone hanno visto la Bibbia come l’inerrante

chiara parola di comando. Hanno creduto in essa. Hanno agito di conseguenza e hanno

visto Dio all’opera. I giorni della chiesa primitiva erano giorni di risveglio e nient’altro che

un risveglio risolverà i problemi della Chiesa di oggi.

 

LA PREPARAZIONE AL RISVEGLIO

Nel risveglio dobbiamo aspettarci che i cieli su di noi si squarcino e pioge di benedizioni

inondino la Chiesa abbattendo il formalismo e la religiosità. RB Jones, scrivendo circa il risveglio gallese, fa una bellissima analogia: “Alcuni anni, fa una corrente calda chiamata

El Nina, che normalmente viene prima di Natale, soffiò lungo la costa occidentale del Sud

America con una forza che mai prima di allora si era manifestata; portò con sé piogge

torrenziali che colpirono la regione desertica la quale non aveva visto la pioggia dal 1551.

El Nina trasformò migliaia di chilometri di deserto in paradiso in un periodo incredibilmente

breve e portò migliaia di robusti semi che erano stati in letargo dal 1551 a germogliare

improvvisamente e a crescere con incredibile vigore” (Cieli Aperti).

Il Risveglio è così. Quando tutto sembra perduto, quando le condizioni sono al peggio, Dio

improvvisamente manda il Suo Spirito Santo ed una nuova vita appare nella chiesa e lo

sgorgare delle sue benedizioni raggiunge le masse. Non c’è da stupirsi che tutti gli

scrittori, quando descrivono il risveglio, sostengano che è: “Un’influenza divina che sembra

pervadere la terra. I cuori degli uomini sono stranamente riscaldati da una potenza che è

versata in modi non comuni”. Non sarebbe meraviglioso se noi potessimo ricevere una tale

visita da Dio? Sembra che in ogni risveglio tre cose siano fondamentali.

 

I) Una predicazione biblica

Nessun risveglio nella storia è semplicemente accaduto è sempre la predicazione fedele

alla Parola che ha portato il risveglio. Nel grande risveglio del 1740 sotto Jonathan

Edwards, il servitore di Dio aveva fedelmente predicato sermoni espositivi ad una chiesa

che apparentemente era evangelica, ma penso che il materiale dei suoi sermoni fosse un

po’ troppo pesante e profondo. Nonostante l’indifferenza, l’apatia, la mondanità ed il

cinismo, egli continuò ad insegnare la parola di Dio. Edward, profondamente preoccupato

dalla situazione, trascorse giorni e notti in preghiera, principalmente per la sua stessa

chiesa e il suo popolo. Dalla sua preghiera scaturì il suo famoso sermone Peccatori nelle

mani di un Dio furioso. Quando lo predicò portò una tale convinzione di peccato che le

persone nella chiesa cominciarono a piangere. Altri si aggrapparono alle colonne che

sostenevano la chiesa, gridando “sto scivolando all’inferno. Dio, abbi pietà di me”. Ebbe

inizio un tale movimento dello Spirito che si diffuse come fuoco nelle città e nei villaggi

intorno. Leggendo la storia della Chiesa, siamo colpiti dall’efficienza della predicazione. In

Atti 13 vediamo tre affermazioni importanti Atti 13:42,44,52: “Mentre uscivano, furono

pregati di parlare di quelle medesime cose il sabato seguente. Dopo che la riunione si fu

sciolta, molti Giudei e proseliti pii seguirono Paolo e Barnaba; i quali, parlando loro, li

convincevano a perseverare nella grazia di Dio. Il sabato seguente quasi tutta la città si

radunò per udire la Parola di Dio… E la Parola del Signore si diffondeva per tutta la

regione”.

Sembra esserci un modello in progressione. La predicazione della Parola di Dio, scatenò

negli ascoltanti una grande sete spirituale che portò intere città a radunarsi per sentire la

predicazione della parola di Dio, e gli uditori diffondevano la parola alle zone circostanti in

quasi tutti i risvegli della storia. Anche se molte persone sono salvate nel risveglio al di là

della predicazione, il risveglio è quasi sempre caratterizzato da una potente proclamazione

della Parola di Dio. Wesley, nel predicare vicino a Bedfordshire nel dicembre 1758, entrò

congelato nella chiesa di Wreslington. La chiesa era piena dalle sei del mattino. Wesley

dice: “Nel mezzo del sermone una donna davanti a me cadde come morta, implorando Dio

di avere pietà, così come altri avevano fatto la notte precedente. Berridge (il responsabile

locale) ed io pregammo per loro ed essi si risollevarono nella gioia di avere i propri peccati

perdonati… il 18 dicembre andammo ad Everton e la sera predicammo ad una chiesa

piena: Dio mi diede una tale libertà di parola ed applicò la propria parola al cuore di

parecchi ascoltatori che nel mezzo del sermone imploravano “Dio abbi pietà”. Dentro e

fuori la chiesa ad Everton (mentre Berridge stava predicando) alcune persone svennero sotto la convinzione di peccato, alcune furono prese da terribili crisi di angoscia, gridando

che si sentivano precipitare nella cavità infuocata dell’inferno. Alcuni gridavano con la

propria anima in agonia; Dio era così reale ed essi erano così peccatori; il pianto continuò

per tutta la durata della consulenza spirituale delle persone; mentre alcuni

improvvisamente si alzavano e lodavano Dio, altri gridavano trionfanti per il perdono dei

propri peccati; alcuni con gli occhi pieni di lacrime lodavano il Signore, mentre altri si

sedettero bagnati di lacrime e con una gioia inesprimibile sui loro volti. Berridge fece il

percorso dalla chiesa a casa tra file di persone che cercavano il Signore, o altre che lo

avevano trovato ed ora stavano pregando con altri; alcune erano pervase da una tale

convinzione di peccato che venivano portate in casa dei responsabili come se fossero

vittime di qualche terribile disastro; nel momento in cui venne pregato per loro, o

accettarono per fede la salvezza di Dio, saltarono in piedi cantando lodi ed incoraggiando

altri a credere. Alcuni che apparentemente sembravano rimasti indifferenti alla riunione si

avviarono a casa, ma furono avvolti e colpiti da convinzione prima che arrivassero a casa,

e nel momento in cui i credenti andarono per le strade, essi sentirono suppliche di pietà e

si fermarono a pregare con loro” (John Wesley di C E Vulliamy).

 

II) La pienezza dello Spirito Santo

Le ossa secche che Ezechiele vide, avevano bisogno dello Spirito di Dio Ezechiele 37:5-

10: “Così dice Dio, il Signore, a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e voi

rivivrete; metterò su di voi dei muscoli, farò nascere su di voi della carne, vi coprirò di

pelle, metterò in voi lo spirito, e rivivrete; e conoscerete che io sono il Signore”». Io

profetizzai come mi era stato comandato; e come io profetizzavo, si fece un rumore; ed

ecco un movimento: le ossa si accostarono le une alle altre. Io guardai, ed ecco venire su

di esse dei muscoli, crescervi la carne, e la pelle ricoprirle; ma non c'era in esse nessuno

spirito. Allora egli mi disse: «Profetizza allo spirito, profetizza figlio d'uomo, e di' allo

spirito: “Così parla Dio, il Signore: Vieni dai quattro venti, o spirito, soffia su questi uccisi,

e fa' che rivivano!”» Io profetizzai, come egli mi aveva comandato, e lo spirito entrò in

essi: tornarono alla vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, grandissimo”.

L’invito è di esseri ripieni di Spirito Santo Efesini 5:18: “Non ubriacatevi! Il vino porta alla

dissolutezza. Ma siate ricolmi di Spirito”.

Questo è un chiaro imperativo. Se non siamo ripieni dello Spirito, Dio non può benedirci.

Gesù disse ai suoi discepoli di stare nella città di Gerusalemme fino a che sarebbero stati

riempiti di potenza tramite lo Spirito Santo Luca 24:49: “Ed ecco io mando su di voi

quello che il Padre mio ha promesso; ma voi, rimanete in questa città, finché siate rivestiti

di potenza dall'alto”.

Che cosa fecero? Trascorsero giorni in preghiera nella stanza di sopra in rigida obbedienza

al Suo comandamento ed il giorno della Pentecoste furono riempiti di Spirito Santo. Nel

giro di una generazione l’intero mondo conosciuto era stato raggiunto dal Vangelo. Una

chiesa non vivificata vive al di sotto del normale stato di salute spirituale, ma Dio è

disposto a guarirla quando essa è disposta ad accettare le Sue condizioni e ricerca la Sua

pienezza. Molte persone accusano Dio dell’assenza di risveglio, come se Lui fosse

soddisfatto nell’avere una chiesa malata, talvolta per periodi fino a centinaia di anni alla

volta, ma Dio non può essere ritenuto responsabile.

A. W. Tozer ha scritto: “Io non ho detto che la religione senza potenza non produce un

cambiamento nella vita di un uomo, ma solamente che non produce un cambiamento

fondamentale. L'acqua può mutarsi da liquido in vapore, da vapore in neve e da neve di

nuovo in liquido, rimanendo praticamente lo stesso elemento. Così la religione senza potenza potrà far subire all'uomo molti cambiamenti superficiali, lasciandolo

sostanzialmente quale era in precedenza “.

 

III) La fede

Senza fede non possiamo aspettarci un risveglio Ebrei 11:6: “Or senza fede è impossibile

piacergli; poiché chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli

che lo cercano”.

Se è così, non possiamo aspettarci un risveglio fino a che non guardiamo a Lui con fede.

Duncan Campbell parla del risveglio avvenuto nelle Ebridi dopo che le persone hanno

accettato le condizioni di Dio. Alcuni avevano pregato per 20 anni. Molti si erano umiliati e

avevano affrontato la loro vita peccaminosa. Duncan aveva appena predicato il suo primo

sermone sull’isola. La chiesa affollata lentamente si svuotò, ma le persone erano riluttanti

ad andare a casa e stettero vicino alla chiesa in un silenzio pieno di tensione.

Improvvisamente si udì un pianto all’interno. Donald, uno dei giovani era aggrappato alla

porta della chiesa piangendo: “Signore, non devi prenderci in giro…l’hai promesso…l’hai

promesso”. Aveva un peso per gli uomini e le donne per cui aveva pregato che non

avevano risposto. Continuò a pregare fino a che cadde sul pavimento esausto dallo

scoraggiamento. Altri continuarono a pregare. La fede crebbe e all’improvviso: Dio era in

mezzo a loro. L’assemblea, mossa dallo Spirito, tornò in chiesa. Un’ondata di convinzione

di peccato pervase coloro che erano radunati spingendo uomini e donne a supplicare Dio

ad avere pietà. Questa riunione iniziò al mattino ed andò avanti fino alle prime ore della

mattina successiva, ma la convinzione di peccato era così grande e la loro sete così

profonda che essi rifiutavano di andare a casa. Ben presto altri si unirono a loro. Alcuni

avevano camminato tutta la notte per essere presenti. Molti non riuscirono ad aspettare di

essere in chiesa, così per strada caddero sulle proprie ginocchia per fare pace con Dio. Da

tutta l’isola arrivarono notizie del diffondersi del risveglio. Gli incontri di preghiera erano

pieni cinque sere a settimana. A volte Duncan doveva smettere di predicare a causa delle

grida di pentimento di molte persone. Dio li aveva chiaramente visitati. Visiterà anche noi?

Noi abbiamo disperatamente bisogno di Lui.

 

CONCLUSIONE

Quando diventiamo abbastanza umili, abbastanza bassi, abbastanza disperati, abbastanza

assetati, preoccupati ed appassionati per le anime, puri e dediti alla preghiera, allora Dio ci

manderà un risveglio che equivarrà e supererà i primi risvegli sperimentati nel passato

Malachia 3:10: “Portate tutte le decime alla casa del tesoro, perché ci sia cibo nella mia

casa; poi mettetemi alla prova in questo», dice il Signore degli eserciti; «vedrete se io non

vi aprirò le cateratte del cielo e non riverserò su di voi tanta benedizione che non vi sia più

dove riporla”.

È di un vero risveglio che abbiamo bisogno nella nostra vita Neemia 12:43: “In quel

giorno il popolo offrì numerosi sacrifici, e si rallegrò perché Iddio gli aveva concesso una

grande gioia. Anche le donne e i fanciulli si rallegrarono; e la gioia di Gerusalemme si

sentiva da lontano”.

È impossibile quindi concludere questo breve ed imperfetto scritto senza esprimere

un'esortazione cristiana, valida tanto per l'individuo quanto per la comunità: - Risvegliati

!

Non importa se tutto intorno a te parla di sconfitta, di morte; non importa se il formalismo,

la mondanizzazione, l'indifferenza, hanno preso il sopravvento: - Risvegliati !

Il diavolo ti dice che tutto è irrimediabilmente perduto e che tutto scorre sotto l'impeto di

una corrente fatale; non ascoltare la voce dell'inferno: -Risvegliati! Il presente secolo dichiara che i tempi sono mutati ed una religione che voglia vivere una

vita esclusiva non può sopravvivere; non ascoltare il mondo: - Risvegliati !

Dal mondo religioso puoi sentir ripetere che i giorni dei miracoli, dei carismi, della

presenza di Dio sono passati e che ormai dobbiamo fondare la nostra esperienza sugli

enunciati teorici; non ascoltare questa voce: - Risvegliati !

Sei un credente senza fede? Sei una chiesa senza vita? La voce di Dio ripete a tutti: -

Risvegliati!

Forse hai un passato illustre che ormai è tramontato e ti rende un “decaduto “ o forse non

hai un passato; l'esortazione è ugualmente valida: - Risvegliati !

La possibilità offerta dall'esortazione è per tutti, quindi nessuno è escluso dalla

benedizione del risveglio, dalla benedizione di un “cristianesimo pieno, esuberante”.

Accetta l'esortazione infuocata che viene dallo Spirito, offri te stesso sull'altare della fede

per essere bruciato dal fuoco di Dio e non rimanere inerte nel mezzo della crisi perché Dio

sta per risvegliare la tua vita Ezechiele 37:11-14: “Egli mi disse: «Figlio d'uomo, queste

ossa sono tutta la casa d'Israele. Ecco, essi dicono: “Le nostre ossa sono secche, la nostra

speranza è svanita, noi siamo perduti!” Perciò, profetizza e di' loro: “Così parla Dio, il

Signore: Ecco, io aprirò le vostre tombe, vi tirerò fuori dalle vostre tombe, o popolo mio, e

vi ricondurrò nel paese d'Israele. Voi conoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le

vostre tombe e vi tirerò fuori dalle vostre tombe, o popolo mio! E metterò in voi il mio

spirito, e voi tornerete in vita; vi porrò sul vostro suolo, e conoscerete che io, il Signore,

ho parlato e ho messo la cosa in atto, dice il Signore”»